Carlotta, la mia piccola guerriera

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Ecco la storia più votata dalle lettrici per il n. 8. Un racconto commovente sulla disabilità

storia vera di Verusca Maria Goretti Miele raccolta da Alessandra Mazzara

 

Mia figlia oggi è una bimba vivace e serena con un sorriso contagioso. Ma se penso all sofferenza che ha dovuto affrontare, credo sia uno spirito combattente. Una roccia che ha permesso a tutti noi di scoprirci più forti.  E più pieni d’amore

È ottobre inoltrato, ma qui in Campania l’autunno sembra non voler arrivare. Fa caldissimo che sembra ancora estate.

«Mamma, pappa», mi dice mia figlia mentre la sistemo sul seggiolone e le attacco la cintura di sicurezza. Dalla borsa tiro fuori un succo di frutta alla pera e glielo do. Lei spalanca i suoi occhioni, l’afferra e inizia a bere golosa, mentre io prendo posto, allaccio la mia cintura e accendo la radio. La voce di Cindy Lauper esplode nell’abitacolo con la sua Girls, just want to have fun. Carlotta lancia un gridolino di gioia: l’adora!

Giro la chiave nel quadrante e sollevo lo sguardo verso lo specchietto retrovisore. I nostri occhi si incontrano.

«Sei pronta, cucciola?».

Carlotta fa di sì con la testa, poi mi sorride.

Lei è così, sorridente e sempre pronta a tutto.

Ricambio il sorriso, consapevole che non staccherei mai i miei occhi dai suoi.

Poi metto in moto e partiamo.

Si dice che il dolore sia il più grande maestro per l’uomo. Ti toglie tanto – a volte, tutto – eppure fortifica l’anima, rendendoci persone migliori. O peggiori, in base a come ad esso rispondiamo. Di dolore, nella mia vita, ne ho vissuto e incontrato tanto. È stato per diversi anni il compagno di un viaggio molto lungo fatto di addii, lacrime, cadute. Eppure, ho imparato che se ci sforziamo ad andare oltre, a volgere lo sguardo al di là delle ferite, non solo è possibile cogliere ciò che di bello e di buono ancora la vita ha da offrirci, ma persino viverlo pienamente, quel bello e tutto quel buono.

È un percorso faticoso: più percorriamo la strada del dolore, più si fa chiaro ai nostri occhi il disegno su di noi. Ma se ci abbandoniamo alla vita, se la lasciamo guidarci verso dove vuole portarci, allora riusciremo a vederlo chiaramente, quel progetto. E ad accettarlo. La mia storia è fatta di tutto questo: di lacrime e addii, paure e fede. E amore, tanto amore, un amore così immenso che mi ha acchiappata, presa per mano e accompagnata lungo sentieri che mai avrei pensato di poter attraversare.

È l’autunno del 2021 quando un test di gravidanza mi annuncia che sarò mamma per la seconda volta. La nostra gioia è incontenibile, soprattutto quella di Maria, la mia primogenita di sei anni, che tanto ha pregato per l’arrivo di un fratellino. O di una sorellina. Io ho 41 anni. Sto bene, mi sento in forma, eppure mi consigliano vivamente di effettuare l’esame del Cariotipo. “Questioni anagrafiche”, mi spiega il mio ginecologo. Sì, perché per una donna oltre i 35 anni di età il rischio di concepire un feto con delle anomalie cromosomiche si fa sempre più alto. Io e mio marito accettiamo, ma nel profondo del mio cuore non temo alcun male. La vita, del resto, mi ha già tolto tanto. Prima Monica, la mia migliore amica dai tempi delle elementari. Poco più che ventenne, un tumore se l’è portata via spegnendo il suo sorriso. Poi, nel 2015, ho dovuto dire addio al mio caro papà. Se n’è andato dopo una lunga sofferenza, ma non prima di aver stretto tra le sue deboli braccia la mia piccola Maria, nata qualche giorno prima che lui chiudesse gli occhi per sempre. L’immagine di loro due avvolti in un tenero abbraccio è impressa nella mia memoria: il mio passato, il mio papà, stretto al mio futuro, Maria. Quanta fatica ho fatto nel dover accettare di lasciarlo andare e quanta ancora ne avrei fatta nel continuare ad andare avanti senza averlo più accanto…

Quindi, no.

Questo esame andrà bene perché nella mia vita non può – non deve – più esserci spazio per altra sofferenza.

Quando, circa un mese dopo dal prelievo, squilla il mio cellulare e leggo sul display il nome del mio medico, non penso affatto agli esiti del cariotipo: siamo in fila per il vaccino anti Covid. Un pomeriggio come tanti altri.

«È un buon momento per parlare, Verusca?», mi chiede.

Gli spiego della fila, promettendo di richiamarlo non appena terminato. Quando lo faccio siamo tutti e tre in macchina, verso casa, io, Maria e mio marito.

Metto su il viva voce. «L’esito del Cariotipo evidenza una probabilità del 99% di Trisomia 21».

In auto cala il silenzio.

«Significa che il bambino ha la Sindrome di Down?», chiedo con un filo di voce.

«Sì. E non è un bambino, ma una bambina».

«L’esame è attendibile?» continuo io, mentre sento piano piano il cuore salire fino alla gola.

«Solo nell’1% dei casi dà un falso positivo».

Io e mio marito ci guardiamo in un tempo che sembra non finire mai. Restiamo in silenzio. Non servono le parole, perché i nostri occhi si sono già detti tutto.

Così, stravolti, sorpresi, impauriti ma fiduciosi, in una tiepida sera d’ottobre diciamo di sì ad un progetto divino di cui ancora non riusciamo ad intravedere neanche i contorni.

 

«Tu me l’hai donata e io l’ho accettata così com’è. Adesso aiutami ad essere degna del Tuo dono».

La fede mi supporta, mi sostiene, mi fa andare avanti. E lo farà ancora di più nei mesi bui che seguiranno, nel momento della prova. Ma questo, ancora, non posso saperlo.

La nascita di Carlotta è un momento in cui sentimenti, paure ed emozioni si accavallano, si scontrano, si sovrappongono continuamente.

«Come sta?», chiedo a mio marito, l’unico ad averla vista.

«È bellissima».

Riesce a dire solo questo. La voce che trema, il volto rigato dalle lacrime.

La piccola viene portata oltre un lungo corridoio, mentre io sono bloccata a letto dal cesareo.

Ha solo poche ore di vita, Carlotta, quando il suo quadro cardio respiratorio crolla: una severa insufficienza respiratoria causata da una grave cardiopatia genetica costringe i medici a richiedere un trasferimento d’urgenza da Sapri, dove ci troviamo, all’ospedale di Napoli. Io non posso seguirla. In ambulanza con Carlotta va il suo papà. Maria, invece, è a casa con mia madre. Siamo quattro pezzi di cuore lontani l’uno dall’altro, impauriti, con davanti a loro un muro altissimo da abbattere.

Ha inizio un nuovo dolore per me. L’ennesima sofferenza che la vita non ha voluto risparmiarmi. Ma è un dolore diverso, questo. Carlotta è carne della mia carne, l’ho tenuta dentro di me per nove mesi, l’ho sentita muovere e scalciare, i nostri cuori battevano all’unisono, per mesi e mesi abbiamo respirato la stessa aria. Non può lasciarmi come Monica, come papà. Carlotta non può morire.

La sua sofferenza è inaccettabile. Inghiotto le lacrime e la rabbia, carico sulle mie spalle la croce e prego, prego, prego, prego così tanto da non avere nemmeno più le parole. Mi appoggio alla fede. Del resto, cos’altro resta all’uomo quando la vita gli volta le spalle?

Carlotta resta due settimane in UTIC, due settimane che sembrano anni.

La raggiungo. La guardo, così piccola, attaccata a mille sondini, fragile come fosse fatta di cristallo.

«Forza, tesoro mio. La mamma è qui con te. Sii forte», le sussurro.

Lei sembra tenere duro.

Poi, l’ictus.

 

In terapia intensiva Carlotta ha le crisi epilettiche. Le viene somministrato un farmaco, ma il dosaggio non è mai quello esatto e la piccola avrà altre crisi, fino a che l’equilibrio farmacologico viene finalmente raggiunto, dopo qualche settimana.

Io mi sento morire. Continuamente sospesa sul filo di un rasoio, non ce la faccio più.

I mesi trascorsi nelle corsie del Monaldi fermano il tempo e lo dilatano, lo dilatano e lo fermano, in attesa che Carlotta prenda il peso giusto per poter sopportare l’operazione al cuore. Che andrà bene e che la inizierà ad una nuova vita. Ho quasi paura a tenere Carlotta tra le braccia, tanto è gracile. Ma non so ancora che, in realtà, mia figlia è una roccia ed è dalla sua incredibile forza che io traggo la mia.

Tra le stanze dipinte di giallo e verde, piene di giocattoli e personaggi Disney appesi alle pareti, la mia storia e quella di Carlotta si intreccia con altre. Con le madri ricoverate nasce una sintonia fatta di sguardi, a volte – spesso – di lacrime, di mani poggiate sulle spalle, di parole di conforto e di silenzi. Ci lega il filo sottile della speranza di rivedere presto le nostre creature forti e piene di vita.

Laggiù ogni giorno per tutte noi è un mistero e per me, precisa, rigida e schematizzata, questa è la prima lezione: non siamo noi gli arbitri della nostra vita. Essa è un dono del cielo e per questo imprevedibile. La vera sfida è starci dentro anima e corpo, accettando quel che viene e insistendo nel cercare sempre la luce quando ci si perde nelle tenebre.

 

Oggi Carlotta ha due anni. È una bambina vivace e serena, con un bellissimo rapporto con la sorella maggiore: sono complici l’una dell’altra, l’una la spalla dell’altra. È spontanea, birichina, divertente e coraggiosa, con un sorriso contagioso che per noi è una continua ricarica quotidiana. Quando mi fermo a pensare a tutto quello che abbiamo vissuto, a tutta la sofferenza che Carlotta ha provato sulla sua pelle e a quella nostra di genitori piegati dal dolore e impotenti dinanzi alla sofferenza del proprio figlio, penso che alla fine tutto questo sia servito. Che Carlotta sia un dono, un seme positivo pieno di vita che Dio ha voluto seminare nel nostro cammino. Che lei non è la sua Sindrome, ma Carlotta, mia figlia, con i suoi tempi, i suoi punti di forza, le sue debolezze e che il nostro compito è semplicemente quello di guidarla, così come per la sorella, verso la completezza della sua vita.

Una vita che abbiamo scelto così com’è e che sceglieremmo altre mille volte. Accettare la sua sindrome non è stato facile. Per Carlotta ho studiato, mi sono documentata, ho letto e fatto mille domande per capire come poterla aiutare, per conoscere le migliori strategie di intervento per garantirle sempre il massimo. Ho perfino organizzato tramite l’organizzazione che anni fa fondai in ricordo di Monica, la mia cara amica, che prende il suo nome e che si occupa principalmente di ricerca contro il cancro e altre malattie, un incontro con il professore Pierluigi Strippoli, un genetista che sulle orme di Jerome Lejeune sta seguendo uno studio scientifico di approfondimento e ricerca sull’aspetto cognitivo della Sindrome di Down.

Non mi fermo mai.

Per le mie figlie non mi fermerò mai.

 

Arrivo davanti al nido e fermo la macchina. Esco fuori e apro lo sportello posteriore. Carlotta è seduta sul suo seggiolone e mi sorride. Le slaccio la cintura e la prendo in braccio.

«Mamma…», mi sussurra. Poi mi dà un bacino sulla guancia e poggia la sua testolina sulla mia spalla.

«Andiamo a scuola, piccola mia».

La maestra ci raggiunge, metto giù Carlotta e neanche il tempo di metterle su lo zainetto che la vedo sgambettare felice verso la classe, verso i suoi compagni che lei adora e che l’accolgono tra gridolini e veloci gattonate. Mi allontano dall’aula e mi fermo in un angolino ad osservarla. È così felice che nemmeno si guarda più in giro per vedere dove sono finita. Vedo i suoi codini castani muoversi, i suoi bellissimi occhietti a mandorla curiosi esplorare la stanza. Ride, canticchia, batte le manine.

Cos’altro potrei chiedere, oggi, alla vita?

Nulla. Mi ha tolto tanto, ma mi ha anche dato in abbondanza.

Certo, ogni giorno è faticoso. Carlotta ha buttato per aria la tranquillità di una vita senza pensieri. Ma non tornerei mai indietro, al prima di lei. Abbiamo attraversato il buio, tutti e quattro soffrendo ciascuno a modo suo, e ora che siamo baciati dalla luce ci teniamo per mano, consapevoli di essere delle rocce appoggiate l’uno all’altra. Carlotta, la roccia più solida, è quella che regge le nostre debolezze e che smantella con un sorriso le nostre paure.

«Guerriera libera», significa il suo nome.

Ed è così che, in cuor mio, spero sia un giorno, quando sarà grande. Felice, serena, buona, sicura di sé, allegra.

Combattente.

E libera.

 

 

 

 

 

 

 

 

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