Caro (carissimo) diario

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Scrivo il diario dai tempi del liceo e non ne ho mai buttato via uno. Quindi, la mia vita è registrata in ogni dettaglio, come una biografia

Leggendo Confidenze in edicola adesso ho fatto una scoperta che per me ha del sensazionale: in provincia di Arezzo esiste la Città del Diario.

Per i motivi che vi racconterò a breve, sono andata subito su Internet a curiosare. Ed ecco cos’è saltato fuori: Pieve Santo Stefano non è proprio una metropoli, dato che conta meno di 3.000 anime. In compenso, vanta un Piccolo Museo del Diario, dove magari un giorno finiranno anche tutti i miei.

Ed eccomi pronta a spiegarvi il rapporto strettissimo che ho con gli appunti quotidiani.

Tutto è iniziato al liceo. Dove, come molte adolescenti, affidavo pensieri e stati d’animo alle pagine che avrebbero dovuto raccogliere esclusivamente orario scolastico e compiti da svolgere a casa.

Come succede a quell’età, ero convinta che aggiungere qualcosa di personale a uno strumento ufficiale non fosse un’azione terribile né severamente punibile. Perciò, con una puntualità stacanovista dal primo anno ho preso l’abitudine di non annotare solo il titolo del tema affibiato dalla prof, ma anche i nomi delle amiche che sentivo al telefono. Quelle che frequentavo. Il bacio con il nuovo fidanzatino. I compli-mesi.

Inoltre, segnavo i libri che leggevo, i film che vedevo, gli spettacoli a cui assistevo. Insomma, non tralasciavo nessun dettaglio del tempo che vivevo.

Così, senza che me ne accorgessi quegli appunti si sono trasformati in una fedele cronaca degli anni che trascorrevano, visto che non ho mai smesso di prenderli.

La mania di tenere il diario, infatti, non è finita con la scuola, anzi. Dall’esame di maturità in poi ho continuato a “registrare” la mia esistenza sulla carta. E oggi, all’alba dei 60 anni, posseggo un dossierone che descrive con precisione da chirurgo l’intera Albie-biography.

Al punto che se mi chiedete cosa ho fatto (sputo una data a caso) il 23 giugno 1983, mi basta sfogliare l’agenda dell’epoca per potervelo raccontare senza il minimo tentennamento.

Ed è proprio questo che mi spinge ancora oggi a scrivere tutto: rileggere il passato è sempre una coccola per lo spirito. Perché ricordare i capitoli felici accarezza il cuore. E non dimenticare quelli infausti è la strategia più efficace per affrontare i nuovi intoppi che (inevitabilmente) verranno: sapere che allora ce l’abbiamo fatta a superarli aiuta a credere che possiamo farcela anche in futuro.

Detto ciò, i miei diari non hanno nulla di poetico. Si tratta di elenchi stringatissimi che, come ai tempi del liceo, fanno da cornice agli impegni ufficiali. Senza fronzoli e neppure parole di troppo.

L’esempio della pagina standard? Incolonnati in alto ci sono i “doveri”: consegnare il pezzo, pagare la multa, ritirare la roba in tintoria. Su un lato, compaiono le persone che ho sentito al telefono. In mezzo, quelle che magari ho visto a pranzo. Mentre sotto annoto cosa ho fatto alla sera. Con un vezzo: metto sempre il mio nome.

In realtà, il dettaglio è ingiustificato. Perché se segno che sono andata a cena da qualcuno, il mio nome è inutile. Ma lo è ancora di più se sono stata io a invitare, poiché è improbabile che abbia aperto la porta agli ospiti e me ne sia andata lasciandoli lì a bivaccare da soli a casa mia.

Ma questa è la cifra stilistica dei miei diari. Che redigo ormai dalla fine degli anni ’70 con le stesse modalità e puntualità. E se ormai in casa ho una specie di antologia, quasi quasi mi verrebbe voglia di proporrla al Museo di Pieve Santo Stefano. Sempre ammesso che abbiano lo spazio per prendere tutti i volumi: più di 40!

Confidenze