Una delle storie apprezzate del n. 49 è il racconto di Valeria, che a soli 13 anni è stata ricoverata per anoressia
A 13 anni smisi di mangiare. Il giorno dei campionati di ginnastica, quando dovetti indossare il body, tutto precipitò, finii in ospedale. Ma se oggi tanti mi seguono sui social è perché mi sono data un’altra possibilità
STORIA VERA DI VALERIA VEDOVATTI RACCOLTA DA GIOVANNA SICA
Mi chiamo Valeria Vedovatti, ho 18 anni, frequento l’ultimo anno di liceo linguistico e sono una influencer. Fino a due anni fa vivevo nella Svizzera italiana con la mia famiglia. Poi mi sono trasferita a Milano perché è lì che si svolgono tutti gli eventi relativi al mio lavoro. Non è stato facile convincere i miei genitori, papà Silvio e mamma Gabriela, a lasciarmi andare. Ho anche due fratelli molto più grandi di me, Luca e Sara. Fino ai 13 anni ho fatto ginnastica attrezzistica ed ero anche brava, poi ho dovuto smettere perché si è rotto qualcosa dentro di me. Ognuno di noi ha un suo punto di rottura e nessuno sa quale sia, cosa può far sì che si fracassi la parete di vetro che ci tiene in equilibrio e ci caschi addosso. Apparentemente mi mandarono in crisi due frasi innocue delle compagne di allenamento: «Vale, come fai a mangiare così tanto, senza ingrassare mai? Vorrei essere io così!». «Ma è ancora piccola, anch’io alla sua età avevo il metabolismo alle stelle, poi le cose cambiano». Dentro di me una vocina mi pungolò: “Ma se davvero poi crescendo ingrasso?”. E lì cominciai a competere con calorie, grassi, zuccheri. Iniziai a mangiare sempre meno.
Il primo episodio di controllo del cibo avvenne a settembre di cinque anni fa, al pranzo di inizio anno che con i miei compagni di classe organizzammo nel bosco. Io stavo davvero bene con i miei amici, eravamo tutti assieme su una coperta da pic-nic. Rifiutai il marshmallow perché pensai che contenesse troppi zuccheri, prima non mi ero mai fatta il conto delle calorie di quello che buttavo giù. Ma il mio problema, che ha un nome che ancora mi fa paura, anoressia nervosa, non aveva niente a che fare con il desiderio di restare magra. Nel mio caso sentivo un bisogno di controllo che la mia mente sfogava sul cibo, perché il mio corpo era l’unica cosa che potevo controllare. Tutto il resto mi scivolava dalle mani, non riuscivo a trattenerlo. Mi sfuggivano di mano le liti dei miei genitori. Mi sfuggivano di mano le tante, troppe, cose che mi ostinavo a tenere insieme per essere sempre la più brava della classe. Per non deludere mai nessuno. Come se il bene che ci vogliono parenti e amici fosse direttamente proporzionale ai nostri successi. Mi scappava dalle dita la vita in sé che è imprevedibile e non si fa domare dai nostri sciocchi tentativi di tenerla a bada. Così cominciai a mangiare sempre meno. Più toglievo e più mi sentivo piena di me. Più le amiche mi dicevano che ero dimagrita e più ero soddisfatta. Ovviamente i miei genitori si accorsero che stavo scomparendo e provavano a chiedere, a indagare, ma io svicolavo con scuse.Avevo mangiato troppo a pranzo, non mi sentivo bene con lo stomaco.
Ed ero convincente, nemmeno io sapevo più dove finiva la verità e dove cominciava la menzogna. La parte sana e quella malata di me si erano mischiate talmente tanto che non riuscivo più a separarle, a fare la cosa giusta: chiedere aiuto. A metà novembre del 2016 credo di aver toccato il fondo. Mentre mia madre mi faceva fare analisi sulla celiachia, sperando che fosse quello il motivo del mio eccessivo deperimento, io ero arrivata a guardare la mia vita dall’esterno: me ne stavo immobile, zitta, le voci e i rumori erano dentro di me. Non avevo voglia di vedere nessuno e nemmeno di confidarmi. La sola idea di mangiare mi dava la nausea. Non riuscivo neanche più a bere. Nemmeno a deglutire la mia stessa saliva. Avevo sempre freddo. E sonno, ero costantemente spossata, ma nonostante tutto questo mi illudevo di poter partecipare al campionato nazionale di ginnastica del mio Paese, il 3 dicembre 2016. Quando quel giorno tanto agognato arrivò, realizzai che avrei dovuto spogliarmi. Che avrei dovuto togliermi la tuta dentro la quale tenevo nascosto il mio corpo ossuto e indossare il body. Allenatore, mamme delle mie compagnie e la mia di mamma, mi posarono addosso occhi allarmati: mi avevano scoperta, ma io ero ancora convinta di non avere nessun problema, che la mia leggerezza mi avrebbe salvato dal peso di vivere che mi si era conficcato sullo stomaco. Il giorno dopo mamma mi portò all’ospedale, io avrei voluto sottrarmi ma non potevo: avevo solo 13 anni, avremmo fatto a modo suo. In reparto mi attaccarono subito la flebo, ero disidratata. Mi dovevano ricoverare e pure d’urgenza, i medici dissero che il mio quadro clinico era gravemente compromesso: avevo la pressione troppo bassa, il battito cardiaco rallentava, era arrivato a 38, se continuavo così sarei morta e pure alla svelta. Il primario mi diede una settimana di vita.
Nella mia camera di ospedale ero isolata dal mondo: non potevo ricevere visite, neanche mamma e papà. Nessun giocattolo tecnologico, né la tivù, né i libri. Niente niente niente. Solo io e Asia, la mia compagnia di stanza che aveva il mio stesso problema. Mio fratello ogni sera alle nove veniva davanti all’ospedale e mi mandava dei segnali con la sua torcia. Mi aggrappavo con tutta me stessa a quella luce, a quella scia luminosa che mi sfiorava il viso con una lunga calda carezza e mi diceva:“Ti voglio bene. Io, mamma, papà e Sara ti vogliamo bene e siamo con te”. Cominciai a sforzarmi di mangiare, volevo riabbracciare la mia famiglia! Volevo tornare da loro! Volevo rinascere. All’anno 2017 brindai con un’infermiera che venne a svegliarmi con un calice di spumante analcolico. Il 10 febbraio 2017 mi dimisero. Volevo solo tornare a casa mia, alla mia vita, avrei voluto urlarlo ai quattro venti che si è sempre in tempo per rinascere. Uscita dall’ospedale non potevo riprendere gli allenamenti come speravo, ero troppo debole. Allora chiesi ai miei genitori il permesso di aprire un canale su YouTube. Mi piaceva guardare video e in realtà li facevo anch’io già da tempo, solo che non potevo caricarli da nessuna parte. Video su come decorare i quaderni, video in cui raccontavo di me. All’inizio li guardavano solo i miei genitori e le mie amiche più strette.
Poi è successo che un video è diventato virale e hanno iniziato a seguirmi sempre più persone. 100, 100.000, 50.000. Un milione. Quante facce ci vogliono per fare un milione di persone? Provo a visualizzarle, ad abbracciarle tutte almeno con la mente e il con il cuore. Spero tanto che la mia storia possa essere d’aiuto anche ad altre ragazze in difficoltà, di qualsiasi difficoltà si tratti, perché volersi bene e credere in sé sono la medicina che sana da ogni malattia. ●
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