Si chiama odontofobia e io ne soffro. Cioè, Ho terrore del dentista (che poi è anche il titolo di un articolo che trovate su Confidenze in edicola adesso).
Secondo lo psicoterapeuta intervistato, questa paura ha spesso origine in esperienze traumatiche del passato. Ma anche se spremo le meningi, non ricordo di aver mai subito, nell’infanzia né più avanti, estirpazioni stile Far West, con il dottore che mi faceva ingollare un litrozzo di whisky e mi metteva in bocca una cintura di cuoio per cercare di anestetizzare il dolore.
Eppure, quando puntuale mi chiama lo studio per fissare il doveroso appuntamento di controllo, guardo il display tremolante, tentata ogni volta di non rispondere. E appena mi siedo sulla poltrona regolabile, non c’è regolazione che tenga: il mio corpo, rigido come uno stoccafisso, tocca la superficie solo all’altezza delle spalle e dei piedi. Tutto il resto è solidamente sollevato, neanche fosse uno dei pochi ponti italiani incrollabili.
In realtà, la seduta di solito va via liscia. Ma il solo rumore del trapano mi fa sembrare quello della forchetta che stride sul piatto una dolce melodia. E il bicchierino d’acqua per il risciacquo finale, il migliore champagne con cui brindare a un evento clamoroso: l’opportunità schizzare a palla in redazione e sedermi finalmente alla scrivania invece che su quell’allucinante poltrona delle torture.
Detto ciò, confesso che non è solo il dentista a farmi sprofondare nel panico. Dall’oculista, per esempio, sono talmente agitata che affronto l’innocua domanda «Fino a quale riga riesce a leggere?» alla stregua di un interrogatorio della Stasi.
Così, con le mani sudaticce, la salivazione azzerata, la fronte che cola sudore e le gambe rigide come dal dentista (nonostante qui sia seduta su uno sgabello), bofonchio qualcosa di incomprensibile, strabuzzando e rilassando a intermittenza gli occhi nella speranza che la strategia mi aiuti a leggere anche la parte più bassa della dannata tavola ottotipica. Il tutto fino a quando il dottore, ormai spazientito, cerca di sveltire i tempi chiedendomi brusco: «Che lettera è questa?».
Per lui sapere che scambio una A con una C è fondamentale solo ed esclusivamente per prescrivermi le lenti giuste. Per me, invece, dare la risposta azzeccata diventa una questione di vita o di morte. Quindi, dimentico che sono lì per individuare la mia capacità visiva e mi sento una spia caduta in trappola, ma decisa a non rivelare nessuna informazione importante al nemico.
Morale, nonostante di solito non stia zitta neppure se mi imbavagliano, dai medici rimango muta come un pesce. Dal dentista, anche perché è difficile proferire con la bocca spalancata e stipata di tubetti in cotone. Dall’oculista, invece, perché nonostante si assomiglino molto, il rischio di dire «B» al posto di «8» lo vivo come un’auto-condanna al patibolo.
E se non è terrore questo…
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