La mia è una storia dura, forse però può aiutare altre persone: a scuola ero vittima di insulti e atti di vandalismo. Ho sofferto, sono arrivata a farmi del male, ma a un certo punto ho reagito. Mi sono fatta curare. Oggi voglio aiutare altri come me
Storia vera di Rebecca Sette raccolta da Alina Rizzi
Il bullismo, per un bambino delle scuole elementari, è incomprensibile. Io di sicuro non capivo perché venivo trattata sempre male, derisa, insultata. Un giorno un compagno carino mi baciò, poi si scostò da me e scoppiò a ridere insieme a tutti gli altri. Rimasi senza parole. Era doloroso, ma non capivo come avrei dovuto comportarmi e allora subivo. Alle medie le cose si fecero più serie: praticamente ero considerata la sfigata della scuola. Oltre gli insulti c’erano i gesti, tipo tagliarmi il giubbino con le forbici, schiacciarmi il telefono sotto i piedi, prendermi per i capelli e tirarmeli o impiastrarmeli di gomma da masticare. Ma perché a me? Mi chiedevo. Cosa avevo di sbagliato, di così diverso da tutti gli altri?
Quando mi accorsi che i professori vedevano ma giravano la faccia, facendo finta di niente, mi convinsi che era colpa mia, altrimenti qualche adulto mi avrebbe difesa. Cominciai a pensare che facevo schifo veramente, non sopportavo più il mio corpo frutto di continue offese e violenze.
In quel periodo era nato il sito Tumbler, ci capitai per caso e vidi una ragazza che si tagliava il braccio con una lametta e raccontava che poi stava meglio. Io ho sempre avuto molta paura del dolore fisico ma la sofferenza interiore era intollerabile e ci ho voluto provare. Ho iniziato a tagliarmi le braccia, le gambe, le caviglie. Poi nascondevo i segni con maniche lunghe e i pantaloni. Stavo meglio? Non lo so, ma la pressione si allentava un po’ e tiravo avanti. Se non potevo tagliarmi, magari a scuola, mi mordevo a sangue l’interno delle guance, mi strappavo ciocche di capelli, mi davo dei gran pizzicotti. Il dolore fisico spostava la mia attenzione dalla sofferenza interiore, mi distraeva.
Ora so che lo facevo già alle elementari, quando infilavo un piede sotto la gamba del banco e mi ci appoggiavo sopra. Quando sono andata al liceo classico, e lo desideravo tanto, ho scelto un istituto lontano dalle scuole precedenti. Volevo ricominciare dove non mi conosceva nessuno, dimenticare il passato. E invece, sfortuna vuole che trovai una compagna delle medie che all’inizio si finse un’amica gentile, raccogliendo le mie confidenze, e poi non ci mise niente a raccontare tutto in giro, facendomi sprofondare nella vergogna. Arrivò al punto di istigarmi al suicidio e io, inerme, esaurita, la ascoltai. Mi spinsi sulla scala antiincendio, in alto, decisa a buttarmi di sotto, ma fui intercettata da un professore di religione che mi prese e mi salvò. Però non vennero convocati i miei genitori, come se il mio dolore non interessasse nessuno. Lasciai la scuola: ormai non riuscivo più a studiare, stavo troppo male, avevo attacchi di panico e mi ferivo sempre di più.
A diciassette anni mi soprese mio padre con la lametta, in casa, e spaventatissimo mi portò al pronto soccorso, dove ovviamente fui sottoposta ad una visita psichiatrica. La dottoressa disse che soffrivo di depressione e mi prescrisse degli psicofarmaci. Tutto qui. Non mi consigliò una terapia di sostegno o visite di controllo. Così io continuai con le medicine facendomele prescrivere dal medico di base quando finivano, semplicemente. Ma potevo guarire in quel modo?
Mia madre aveva un esaurimento nervoso, mi rimproverava, mi insultava, io invece avevo bisogno d’amore, sostegno, calore. Cercavo disperatamente affetto per riempire il buco che avevo nel cuore. Quando incontrai un ragazzo che disse di amarmi praticamente caddi ai suoi piedi. Aveva la mia età, diciotto anni, e avrei fatto tutto per lui.
Purtroppo in breve tempo il mio sogno d’amore si trasformò in una relazione tossica. Lui era geloso, mi controllava, pretendeva che mandassi fotografie da ogni luogo dove mi trovavo, per essere sicuro che non gli mentissi. Non dovevo vedere nessuno oltre lui, neppure stare coi miei genitori. E nel frattempo mi giudicava per qualsiasi cosa facessi o anche solo per il mio abbigliamento. Quando mi diede uno schiaffo in pubblico, gettandomi contro un’auto parcheggiata, decisi che dovevo chiudere.
Cercai rifugio nel lavoro, iniziando come commessa in un supermercato, poi in un ristorante come cameriera. Lavoravo tantissimo senza lamentarmi mai. Avevo uno stipendio di soli 800 euro al mese ma sgobbavo anche sabato e domenica e di sera fino a tardi. Ad un certo punto il mio capo mi chiese di occuparmi di tutto perché lui aveva altro da fare. Mi diede le chiavi del locale e decise che dovevo trattare con clienti, fornitori, dipendenti e poi aprire al mattino e chiudere quando non c’era più nessuno. In pratica andavo a casa solo per cambiarmi e dormire poche ore. I miei genitori protestavano perché era evidente che venivo sfruttata ma io andavo avanti: mi piaceva sentirmi considerata, finalmente qualcuno si era accorto del mio valore! Finché per lo stress il mio corpo cedette. Svenni e finii al pronto soccorso. Dopo una settimana di riposo ripresi il lavoro, però era tornata la depressione, la sofferenza, la confusione in testa. Chiesi aiuto al CPS e fui ricoverata in psichiatria. Ma ero andata troppo oltre.
Quando tornavo a casa dopo i ricoveri avevo fortissime crisi emotive, mi tagliavo, non mi riconoscevo allo specchio. Arrivai ad avere momenti di vuoto totale, in cui non sapevo cosa facevo e dove mi trovavo, dimenticando parti della giornata. Sono stata ricoverata 6 o 7 volte in psichiatria. A casa i mei genitori e mio fratello mi dovevano tenere sempre sotto controllo e così iniziarono a fare i turni sul lavoro. Era un disastro. Il culmine fu quando facendomi un taglio ingestibile nel braccio, che dovettero poi ricucirmi con dodici punti, mio fratello per salvarmi si ferì col mio coltello. Arrivarono ambulanza e carabinieri. Capii che avevo toccato il fondo. Non sarei sopravvissuta.
E’ a questo punto che, con le forze che mi restavano, cercai un centro specializzato, Villa Azzurra a Ravenna, e mi feci ricoverare. Finalmente trovai comprensione, calore e le cure più appropriate di psicologi e psichiatri. Mi feci delle amiche, che stavano male come me e che mi comprendevano. Sono rimasta sette settimane e ho imparato ad affrontare i dolori del passato, a perdonare le scelte sbagliate, ad amarmi e a ricostruire un rapporto vero coi miei genitori. Mi è stato diagnosticato un disturbo di personalità borderlaine, che non guarirà, ma conoscendosi a fondo si impara a conviverci. Infatti sono uscita rinata da Villa Azzurra. Ho una nuova consapevolezza, mi accetto, mi amo e non voglio scordare la bambina e la ragazza tormentata che sono stata. Ho imparato a gestire le emozioni, anche quando diventano confuse. Non mi sento più sola e sbagliata.
Ora sono seguita dal CPS dell’Ospedale Niguarda, ho un lavoro, un fidanzato che mi ama, mi sostiene e non ha paura della mia malattia. Vivo una vita normale, quella che ho sempre voluto, ma poiché sono consapevole di quanti ragazzi soffrano come ho sofferto io mi dedico molto ai social, dove racconto la mia esperienza e invito le persone a parlare, a chiedere aiuto, a rivolgersi a personale specializzato, senza mai giudicare. Mi dicono che a volte anche solo scrivermi li fa sentire meglio, perché io so cosa stanno vivendo, so che la solitudine è pericolosa. Di recente sono riuscita a convincere una ragazza ad entrare a Villa Azzurra e per me è stata una gioia immensa. Quando su Instagram ho postato il breve video in cui esco da Villa Azzurra e abbraccio mio padre, nel vero momento della mia rinascita, le visualizzazioni sono arrivate a un milione. Non me l’aspettavo e ne sono fiera. Voglio che tutti sappiano che ci si può liberare da quel dolore, che si deve imparare ad amarsi per rinascere. Io ci sono per loro, mi trovano su Instagram. Non siete soli. Non siamo soli.
DIDA
Rebecca Sette ha 25 anni, vive a Milano, lavora e ha un fidanzato. Ha un passato segnato da bullismo e autolesionismo, ma ora si sente rinata e vuole aiutare chi ha sofferto come lei tramite il suo profilo Instagram.
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