di Elena Vesnaver
Erano belle quelle notti.
Il vento e la pioggia contro i muri della canonica, Charlotte, Anne e io strette negli scialli, a scrivere e a leggerci i nostri romanzi, correggerli e litigare sottovoce per un passaggio che alle altre due non piace. La carta che scricchiola sotto la penna, il tè e il pane e burro, Keeper ai miei piedi, caldo, che se mi muovo, alza la testa e poi torna ad accucciarsi, bravo cane. Keeper, che fa paura a tutti meno che a me, bravo cane, che fa paura come il mio romanzo e me lo diceva anche Charlotte.
«Ma Emily, questa storia fa una paura tremenda!».
Ridevo, allora, ridevamo tutte e tre, ma tendevamo l’orecchio per sentire se Branwell tornava, come se non fosse bastato il ringhio roco di Keeper ad avvertirci.
La casa come rifugio
Eravamo le sole testimoni, noi sorelle, della vergogna di nostro fratello che tornava sempre più tardi, consumato dal liquore e da chissà che altro, per fortuna papà dormiva e anche Tabby, che ci ha tirati su come figli e ama Branwell, ma chi non lo ama? Keeper, ma Keeper è di sentimenti esclusivi, ama solo me. Nostro fratello arrivava, inciampava sul sentiero, io prendevo il mantello pesante di Tabby e correvo fuori per aiutarlo e dirgli, “zitto, zitto, piccolo mio, zitto, ragazzo, vieni dentro che fa freddo, vieni, il camino è acceso, senti quanto si sta bene”. Lo mettevo a letto, lui ripeteva che era l’ultima volta e si addormentava, e io tornavo in salotto, a bere il mio tè, a scrivere quella storia che faceva paura e ad ascoltare la tempesta che scuoteva il nostro rifugio.
“… stesi il braccio al di fuori per afferrare il ramo importuno, ma la mia mano strinse invece le dita di una piccola mano diaccia. L’intenso orrore dell’incubo m’invase; cercai di ritrarre il braccio, ma la piccola mano vi si aggrappava, e una voce malinconica ripeteva singhiozzando: «Lasciami entrare! Lasciami entrare!»”.
La casa è il nostro rifugio, ogni volta che l’abbiamo lasciata è successo qualcosa di brutto, come quando papà ci ha mandate in collegio. Lui pensava di fare molto bene, pensava che le figlie di un curato di campagna dovessero avere una buona istruzione per trovare un buon lavoro e mantenersi, chi ci avrebbe mai sposate senza una dote? Ci siamo ammalate tutte e quattro in quella scuola maledetta e quando ci hanno riportate a casa Tabby ha fatto l’impossibile, ma Elizabeth e Maria stavano troppo male e pure io e Charlotte, ma solo noi due ce l’abbiamo fatta. Branwell dice che di notte sente ancora la voce di Maria nel vento, per questo lui non riesce a dormire. Povero Branwell.
Selvaggia e vagabonda
Io non me ne vado più, da nessuna parte, io voglio restare in questa casa, perché non mi importa di passeggiare per le vie di una bella città, ho la brughiera io, da camminarci fino allo sfinimento, fino a dove arriva lo sguardo e oltre, dove siamo solo io, Keeper e i falchi.
Io non voglio fare amicizie ed essere piacevole. Charlotte è brava, è capace, ha delle amiche che si scrivono e si vedono e quando arriva in un posto, sa sorridere, parlare, sa fare conversazione. Io no, non mi va.
«Ma provaci, è la normalità» mi ha strillato un giorno, solo che io non voglio essere normale, la normalità è umiliante, mi fa stare male, la gente mi fa stare male, i posti che non conosco mi fanno stare male.
Sono selvaggia come il mio cane, che ascolta soltanto me e mica sempre, come il mare di erica, che cambia colore con le stagioni, come la tempesta, che scoppia e distrugge, cieca, ingiusta e magnifica.
Voglio impastare il pane di mattina, come mi ha insegnato Tabby, il pomeriggio diventare una vagabonda uguale ai corvi, ai torrenti, al vento; di sera scrivere davanti al fuoco, continuare a scrivere a letto finché la candela si spegne, scrivere con rabbia e desiderio, ascoltare la bufera e la voce di Maria. Nemmeno lei riesce ad abbandonare la casa.
“Verso la mezzanotte, mentre eravamo ancora alzati, l’uragano si scatenò con tutta la furia. Il vento era furioso non meno del tuono, e spezzò un albero all’angolo del fabbricato; un enorme ramo cadde attraverso il tetto, abbatté una parte del camino producendo un rovinio di pietre e di fuliggine sul fuoco della cucina. Credemmo che fosse scoppiato un fulmine in mezzo a noi”.
Papà è fiero di noi, alla fine siamo riuscite a pubblicare i nostri libri, anche la mia storia che fa paura, e pazienza se sulle copertine ci sono dei falsi e stupidi nomi maschili, pare che funzioni così, chi si fida del libro scritto da una donna? No, non mi va di discutere, ho altro da fare, cucinare, stendere lenzuola, camminare e scrivere, scrivere, scrivere.
Tabby si ferma davanti al mio tavolo e fa uno dei suoi rari sorrisi, poi torna in cucina, zoppicando. Cara Tabby, è vecchia, ma ha sempre lo stesso sguardo che aveva quando le sono capitati sulle braccia sei bambini senza madre.
Fogli pieni di vita
È stata brava la nostra tata e quante storie ci raccontava, la sera, storie scure, cupe, le stesse che ho messo nel mio libro, perché questo si fa, su questi fogli pieni di parole c’è la nostra vita, quello che abbiamo passato. Anche il libro di Charlotte è così, anche quello di Anne, solo che loro ci mettono le persone che hanno conosciuto, io metto la brughiera e il cielo, metto quello che mi piace e le persone non mi piacciono.
Un giorno Anne mi ha chiesto che personaggio ero, nel mio libro. «Sei Catherine, Emily, vero?». Mi sono messa a ridere. «Io sono Eathcliff, non si capisce?». No, sul serio, non posso essere altri che Eathcliff.
“Catherine Earnshaw, possa tu non trovar mai riposo, finché vivo! Hai detto che ti ho ucciso, perseguitami, allora! Le vittime perseguitano i loro assassini! Sii sempre con me, prendi qualunque forma, rendimi pazzo! Ma non lasciarmi in questo abisso, dove non riesco a trovarti! Non posso vivere senza la mia vita! Non posso vivere senza la mia anima!”.●
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articolo pubblicato su Confidenze n. 22
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