“Erano ossa e basta, ossa dentro una bara, ma le loro ossa erano le sue ossa, e lui andò a mettersi più vicino a quelle ossa che poteva, come se la vicinanza potesse unirlo a loro e mitigare l’isolamento scaturito dalla perdita del futuro e ricollegarlo a tutto quello che se n’era andato. Per i novanta minuti successivi quelle ossa furono la cosa che contava di più. Furono l’unica cosa che contava, nonostante l’influenza dell’ambiente degradato dove sorgeva quel cimitero abbandonato. Una volta riunito a quelle ossa, non poteva più lasciarle, non poteva non parlare con loro, non poteva che ascoltare quello che dicevano. Tra lui e quelle ossa c’era un rapporto molto stretto, molto più stretto di quello che esisteva tra lui e le ossa non ancora spolpate. La carne si dilegua, ma le ossa durano. Le ossa erano l’unico conforto che esistesse per uno che non credeva nell’aldilà e sapeva con certezza che Dio era un’invenzione e che questa era l’unica vita che avrebbe mai avuto. (…)
Sua madre era morta a ottant’anni, suo padre a novanta. Ad alta voce disse loro: – Ho settantun anni. Il vostro ragazzo ha settantun anni. – Bene. Hai vissuto, – rispose sua madre, e suo padre disse: – Voltati indietro ed espia le colpe che puoi espiare, e con quello che ti resta tira avanti meglio che puoi.
Non poteva andare via. La tenerezza che sentiva era incontrollabile. Come il desiderio irresistibile che fossero tutti ancora vivi. E che tutto potesse ricominciare da capo”.
Si parla di Roth, quindi si può, anzi si deve, essere dissacranti. Morto un Roth non se ne fa un altro. Questa è una verità assoluta, un dogma. La notizia della sua scomparsa, proprio nell’anno senza Nobel (i suoi estimatori lo attendevano con trepidazione da moltissimo, quel Premio), lascia scombussolati. Philip è morto e sembra strano. Non lo avremmo letto mai più, questo lo sapevamo dal 2012, anno in cui decise di andare in pensione da scrittura e lettura affermando che le storie non rappresentavano più il centro della sua vita: “Ho deciso che ho chiuso con la narrativa. Non voglio leggerla, non voglio scriverla, e non voglio nemmeno parlarne”.
Roth non ha scritto romanzi. Ha scritto l’enciclopedia dell’uomo americano di fine millennio. Ha scritto una diagnosi da chirurgo virtuoso ma sempre e comunque macellaio: ha infilato le mani senza guanti tra le viscere basse e quelle alte di uomini desideranti e cerebrali, ha letto le registrazioni della scatola nera della Mente Umana riportando questa alla sua animalità e vulnerabilità, ha sgrassato l’essenziale dall’olio alle mandorle della cultura buonista di una letteratura confortante ma non strutturata, poco coraggiosa.
Per dire ciao a Roth ho scelto Everyman, la storia di un uomo qualunque, ma come tutti i qualunque Unico, Protagonista, Egoriferito. La storia dei suoi ricordi, i suoi tre matrimoni, le sue amanti, i suoi figli di primo e secondo letto, le sue amanti, i suoi genitori, il fratello amatissimo e poi l’oceano, lui bambino, le onde. Everyman è un libro sul significato della morte, sull’attesa del proprio lutto, un requiem amaro che non concede sconti e continua a immaginare i giorni presenti e quelli futuri, a desiderare che la data di scadenza sia solo indicativa. Che non è possibile, non lo è, ad un tratto smettere di essere. Forse gli altri. Noi no.
Roth è andato da qualche parte o forse no. Di certo restano qui tutti i capitoli e tutte le voci di quell’enciclopedia. Un atlante per osservare la geografia di un pianeta marziano, l’uomo. Una mappa stropicciata per andare alla ricerca di un tesoro che non brilla ma da recuperare: la capacità di sapersi leggere, di sapersi spogliare da falsità, di sapersi riconoscere. Spesso belli e buoni, sì. Ma quasi sempre brutti e anche un po’ cattivi.
Philip Roth, Everyman, Einaudi
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