A parlare di sé ci si rimette sempre. Quando ci capita si cerca di fare bella figura, e si finisce per essere ridicoli. L’autobiografia, anche la più umile, è sempre una vanteria sfacciata.
Non sono una maniaca dell’inconscio, una volta è venuto fuori perché ho esagerato con la vodka e ho spaccato due bei vasi liberty (del padrone di casa). Il mio conscio è costumato, non spacca i vasi, non ci tiene a scoprire il lato violento. Di me parlo di rado anche perché non mi conosco tanto bene. E da quel poco che so, non viene tanto da approfondire.
Una cosa però l’ho capita: io attiro i matti. Il matto da autobus punta sempre me. Perché mi riconosce, sa che sono dei loro, ci capiamo al volo. Coi sani si può fingere, coi matti no. Sanno tutto, nessun muro li protegge dalla conoscenza.
Io però sono un matto imperfetto, un rinnegato: ho fatto il patto sociale. La follia la metto nei romanzi e lì deve stare, nel recinto delle pagine, così che sembri un’ invenzione. E in autobus, quando il matto mi parla, un po’ sono lusingata, ma un po’ mi vergogno coi sani e vilmente cerco di tenere il piede in due staffe.
L’occhio destro scambia sguardi d’intesa col predicatore, il sinistro fa segno ai normali che il matto è lui, io non c’entro!, e con tale doppiezza mi guadagno il disprezzo di entrambi. Tuttavia conto numerose conoscenze fra i matti. Il vicino che ferma tutti i cani che incontra da quando è morta la Giuppy, la sua bastardina pezzata, e lui sa che si è reincarnata in un cane del quartiere ma non sa in quale, e la cerca sempre, nella speranza di cogliere uno sguardo, un segno fra loro che gli riveli l’amata. Ammiro le loro celesti stravaganze, ma non ho quell’audacia. I più inquietanti, i matti artisti, li ho frequentati, amati, ho gioito del loro intelletto vertiginoso che sbaraglia regole e legacci. Molto mi hanno insegnato la loro libertà senza scrupoli, le intuizioni fuori moda, fuorilegge, fuori tempo. Finché non veniva fuori la verità ultima dei miei matti: essere il re del mondo, l’unico, e avere sempre ragione.
E a quel punto da me volevano che stessi in ginocchio ad adorarli. In ciò erano identici ai normali, maschi tradizionali al cubo, maniaci del dominio. Quando non sono stata più al gioco uno mi ha devastato la casa, un altro mi ha distrutto la copia unica del libro che stavo scrivendo. Non sono mai stata all’altezza, non li ho mai raggiunti nel grande salto, nel tuffo radicale. Sere fa stavo rincasando, orgogliosa del mio cappotto sformato che ha 30 anni e si vede, e incarna il mio sogno di barbona da salotto. Quando incontro un gigante del ramo: il barbone Federico, che dorme sdegnoso per terra nella sua copertaccia di anacoreta, davanti al garage. È di famiglia benestante. Prima viveva in un bell’appartamento dove custodiva l’immondizia che raccoglieva, scrupolosamente catalogata anno per anno.
Viveva in un vasto archivio, sei stanze di rifiuti ordinati negli scaffali. Era il suo universo. Non lo andava a trovare nessuno, i miasmi scoraggiavano. E del resto lui era geloso dei suoi beni, usciva solo per raccogliere i rifiuti, poi si chiudeva in casa, per paura che glieli rubassero. I suoi avevano cercato di distoglierlo da quella passione, finché un giorno la famiglia lo ha costretto a uscire con una scusa, e la sorella ha chiamato un’agenzia di pulizie, La Fulgida. Ha fatto buttare via la sua collezione, e disinfettato la casa.
Quando Federico è tornato, quel vuoto gli ha dato le vertigini. È stato zitto, rifletteva. Alla fine ha detto «Ma non c’è più niente! Che ci sto a fare io qui?». È uscito e non è tornato più.
Da allora dorme per la strada. E rifiuta ogni aiuto dalla famiglia, per protesta verso un mondo che è stato capace di negargli il suo unico piacere, la sua ragion d’essere- e di disperdergli il tesoro accumulato con tanto studio. Gli passo accanto, piano, e so che non sono degna di sfiorare l’orlo della sua coperta di vecchio don Chisciotte, che non ha avuto paura di sfidare la fame e il freddo per un ideale.
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