Quando ho chiesto a Tiziana Pasetti di documentarsi per scrivere una storia vera sulle sfide mortali on line era da poco successa una tragedia che mi aveva toccato da vicino. Il figlio di un caro amico, un ragazzo solare e sorridente di 16 anni, che ho visto crescere accanto a mio figlio tra castelli di sabbia e spedizioni marine alle grotte, è rimasto vittima di un gioco mostruoso, in gergo si chiama blackout game, spacciato per prova di coraggio, che alla fine gli è stato fatale. Oltre al dolore e alla costernazione di vedere spegnersi una giovane vita in modo così stupido, in me ha prevalso il pudore e rispetto per il dolore dei genitori e avevo deciso di non parlare della vicenda, ma poi ho visto su Facebook i ripetuti appelli del padre, accompagnati da statistiche e articoli di giornale che riportavano casi analoghi di adolescenti rimasti vittima di assurdi giochi estremi, mettendo in guardia genitori e figli sulle insidie nascoste dietro queste “challange” e ho capito che invece bisognava parlarne.
Perché l’errore peggiore che possiamo fare noi genitori è quello di pensare che “una cosa così a mio figlio non potrà mai capitare” e che “bisogna proprio andarsela a cercare”. Tutti luoghi comuni sfatati dai numeri su quante giovani cadono vittime di sfide nuove, lanciate sui siti web. Secondo lo statunitense Centers for Disease Control and Prevention tra il 1995 e i 2007 sarebbero stati 82 i bambini di età compresa tra 6 e 19 anni deceduti per il blackout game (un gioco di soffocamento) negli Stati Uniti e Regno Unito. L’anno scorso a Milano per il blackout game è morto Igor, un ragazzino di 14 anni.
Il tempo passato on line dai ragazzi rappresenta una fetta sempre più ampia delle loro giornate e se Internet è un mare di conoscenze da ricercare e studiare, c’è anche una sua fetta oscura che è altrettanto a portata di mano dei nostri ragazzi. E c’è un’età in cui il senso del pericolo e la voglia di mettere alla prova i propri limiti hanno il sopravvento sulla ragione e nessun genitore può passare tutto il tempo a controllare il computer e il telefonino dei figli, né può immaginare che dietro la porta chiusa di una cameretta si stia consumando una tragedia.
D’altronde non è solo Internet a poter essere imputabile. Vi ricordate il bungee jumping? (il salto con l’elastico da un ponte). Anche in questo caso qualche ragazzo era rimasto vittima, così come in tempi più recenti un ragazzino è morto cimentandosi nella prova di coraggio di attaversare i binari della ferrovia un minuto prima dell’arrivo del treno. Non ci vuole Internet per mettere a rischio la propria vita, ma certo il web amplifica e seduce, ti offre sul piatto d’argento l’occasione che magari da solo non ti saresti andato a cercare.
È questo il senso della storia che ha raccolto per Confidenze Tiziana Pasetti: Non è solo un gioco, un fatto vero anche questo, ma che fortunatamente ha avuto un esito meno drammatico della vicenda del figlio del mio amico. Le dinamiche però sono le stesse: una ragazza serena e gentile che in questo caso si trasforma in “bulla” mettendo a repentaglio la sua vita e spingendo le amiche a fare altrettanto, come famosa “prova di coraggio”. Quando Tiziana me l’ha proposta mi è sembrato il modo più giusto per ricordare un amico che non c’è più.
Vi invito a leggerla anche se è un pugno nello stomaco, e soprattutto vi invito a seguire il consiglio di Alessandra Cottone, la psicologa che ha commentato il tema delle challange on line. “i figli adolescenti, anche se sani, belli e bravi a scuola, hanno in atto una sfida interiore forte: quella con la crescita, con la definizione del sé. Si buttano nei giochi, rischiano la vita in modo inconsapevole: il senso di onnipotenza li porta a non rispettare un concetto fondamentale, quello della paura, come senso del limite.”
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