“Il soffitto è venuto giù, il pavimento è salito per venirmi incontro. Mi si è rotta la schiena, mi si è rotto il collo, mi si è rotta la faccia, mi si è rotta la testa. Mi si è rotta la gabbia attorno al cuore e il cuore è uscito fuori. Credo che fosse il cuore. Mi è balzato fuori dal petto e mi si è conficcato in gola. Così è cominciata. Per la prima volta (troppo tardi) ho saputo che sapore aveva il mio cuore. Mi manca il fatto di avere un cuore. Mi manca il rumore che faceva, come riusciva a diffondere il calore, come riusciva a tenermi sveglia. Giro di camera in camera e vedo letti sfatti dopo l’amore e il sonno, poi letti puliti e pronti, di nuovo in attesa di corpi che ci si infilino dentro; lenzuola inamidate con un angolo piegato, letti con la bocca aperta che dicono benvenuto, forza su, entra, il sonno sta arrivando. I letti sono così invitanti. Aprono la bocca in ogni stanza dell’hotel ogni sera per ospitare i corpi che ci scivolano dentro in compagnia o da soli; tutta la gente con il cuore che batte, che si infila in posti lasciati vuoti da altra gente che ora è andata Dio sa dove, gente che ha riscaldato gli stessi spazi appena qualche ora prima. Sto cercando di ricordare cosa si prova a dormire sapendo che poi ci si sveglierà. È un po’ che li sorveglio da vicino, i corpi, e che osservo le cose che il cuore gli permette di fare. Li ho guardati dormire, dopo; mi sono seduta ai piedi di letti soddisfatti, letti insoddisfatti, letti che russano, dimentichi di tutto e di tutti, insonni, letti di persone che non avvertivano la presenza di nessuno, nessun altro nella stanza all’infuori di se stessi”.
Il Global Hotel è uno di quei posti dove si incontra, o scontra, il mondo. Cinque donne, cinque tempi verbali: Sara, Lise, Else, Penny, Clare. La trama? La trama è pazzesca, come la vita. E come la vita è segreta, è bugiarda, è apparente, è indicativa, è sfuggente. Cinque donne, cinque storie, i tempi dell’esistenza: la morte, la malattia, la menzogna, la povertà, la ricerca della verità. E per narrare cinque storie, ci vogliono tante chiavi: e quando si racconta, la chiave è la parola, è il periodare, è immaginare una narrazione che somigli alla fragilità delle emozioni, alla forza dei pensieri, agli snodi degli eventi.
Passato, Presente storico, Condizionale futuro, Perfetto, Futuro nel passato, Presente. Questi sono i tempi che Ali Smith tratteggia, dipinge, scolpisce, frammenta. Ogni tempo – ogni storia – una scrittura diversa, originalissima. La peculiarità della strepitosa autrice scozzese, nata a Inverness (che posto fantastico, la capitale delle Highlands! Vi consiglio di andare, affittare una macchina, e perdervi nel verde magico che abbraccia i grandi laghi), è questa: essere in grado di non somigliare sempre a se stessa. Prendere una storia da raccontare e vestirla in un modo, prenderne un’altra e vestirla in un altro: si chiama azzardo, ricerca. Di sicuro, si chiama talento.
Hotel world ha uno degli incipit più folli e perfetti che io abbia mai letto. Davvero, bastano le prime righe per capire quanto la letteratura sia genio, personalità, intuizione artigiana:
“Uuuuuuuuuuu-
Ooooooooou che caduta che volo che capriola che corsa nel buio nella luce che tuffo che botta tonfo schianto che lancio che salto che balzo che spavento che folle strepito stridulo soffocato che poltiglia spappolata prestata rotta e squarciata che cuore in gola che fine.
Che vita.
Che tempo.
Che cosa ho provato. Poi. Non più”.
Ali Smith, Hotel world, Edizioni SUR
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