C’è un dettaglio che dovete conoscere prima di proseguire nella lettura di questo post: sono un’ipocondriaca patologica. E se è vero che nessuno ha voglia di avere a che fare con malattie e diagnosi scomode, io rasento ampiamente i livelli del ridicolo. Tant’è che la mia vita è un inferno assoluto.
Intanto, a ogni minimo accenno di dolorino mi vedo già morta. Ma visto che al momento i fastidi mi hanno risparmiata, so che appena si palesano passerò mezza giornata con l’intenzione di farmi visitare. E la seconda cercando di capire se la situazione sta peggiorando. Nel frattempo, mi dico che andare dal medico significherebbe dichiarare ufficialmente la mia imminente dipartita, quindi inizio a parlare dei mali con chiunque, finché non trovo chi mi risponde che avere i muscoli delle gambe ululanti dopo due ore di bicicletta è normale.
A quel punto, mi tranquillizzo un filino (che è ben diverso dall’aver completamente placato il terrore). E quando gli indolenzimenti spariscono, mi riprometto di non mancare il solito check up annuale, che fisso puntuale ogni gennaio. Mese in cui la mia agenda pullula di appuntamenti con gli specialisti.
Non a caso, improvvisamente rinchiusa in casa nel ferale marzo 2020, ero soddisfatta e sollevata dall’idea di avere almeno concluso la consueta trafila con i dottori.
Ve ne parlo perché sul numero di Confidenze in edicola adesso c’è un articolo, Tutti i controlli da non trascurare, che segnala gli esami ai quali ognuno di noi, a seconda dell’età, dovrebbe sottoporsi anche se si sente un fiorellino.
In realtà, molta gente non è propensa a farsi scaravoltare in cerca di qualche male. Mentre io credo che sia doveroso, nonostante i giorni che precedono le visite e il momento in cui mi devo presentare siano un incubo all’ennesima potenza. Ma se ce la faccio ad affrontarli quasi eroicamente, è grazie a una strategia tanto articolata quanto completamente scema. Che per me, però, è fondamentale per infondermi quel briciolo di coraggio di cui ho bisogno.
Per esempio, la mossa di scegliere gennaio per vedere i medici non è casuale, ma dettata dal fatto che una brutta notizia prima delle vacanze di Natale non la voglio assolutamente ricevere.
Perciò, comincio a fissare gli appuntamenti dopo la Befana, confermando la data disponibile più lontana e facendo in modo che cada di mercoledì per una questione scaramantica. Ma visto che ovviamente non sempre ci riesco, fino al momento in cui mi trovo di fronte al camice bianco continuo a ripetere come un mantra che non è certo il giorno della settimana a sancire il mio stato di salute.
Quando poi arriva l’ora della visita, mi vesto in un modo ben preciso (sempre lo stesso). Metto al collo una catenina che mia mamma mi aveva obbligato a indossare miliardi di anni fa in un’occasione che avrebbe potuto rivelarsi drammatica. E mi presento a rapporto.
Dopodiché, durante l’appuntamento compio qualsiasi minimo gesto con le dita sempre incrociate. Tutti i miei movimenti copiano quelli già adottati una valanga di altre volte. E la routine si svolge tra un’infinita (e patetica) serie di atteggiamenti (miei) che reputo palesemente propiziatori. Eppure così impercettibili, che nessun medico li ha mai notati (per fortuna, perché mi vergognerei come una ladra).
L’iter, naturalmente, comporta una fatica pazzesca e uno sforzo mnemonico mica da ridere, visto che a ogni studio dedico strategie differenti. Ma tutto questo delirante comportamento è anche l’unica tattica che mi consente di non trascurare i controlli. E, soprattutto, di non trascurare me stessa.
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