Odiavo talmente studiare che quando ho finito il liceo non ho pensato neanche un secondo di iscrivermi all’università. Così, al ritorno dalle vacanze dopo la maturità è iniziata la mia vita professionale.
A settembre ho sostenuto dei colloqui di lavoro durante i quali facevo figure barbine: non sapevo fare nulla. Non avevo ancora nessuna ambizione. E alle domande dell’interlocutore di turno rispondevo balbettando come una troglodita.
Eravamo nei mitici ma strani anni ’80. Cioè, quelli in cui da un lato trovare un impiego era più facile di bere un bicchier d’acqua. Dall’altro, però, cercavi comunque il posto fisso. Che consideravi un traguardo da favola, nonostante le alternative fossero illimitate. E tutte lì ad aspettarti.
Nel mio caso, per esempio, sono stata assunta nella più importante casa editrice dell’epoca senza nessuna fatica. E poi, rispettando il mood italiano di rimanere incollata alla scrivania “finché morte non ci separi”, da lì non mi sono più mossa per 35 lunghissimi anni. Tant’è che oggi, ormai sessantenne, a volte mi chiedo se abbia fatto bene o meno.
In realtà, la scelta è stata azzeccata al 100%. Perché ho avuto la fortuna di svolgere una professione così meravigliosa da poterla affrontare come un gradevole passatempo.
Pur impegnativa, infatti, era (ed è tutt’ora) molto varia. E se assorbiva tantissimo, lasciava comunque abbastanza spazio alla vita privata.
Quindi, all’inizio ho potuto divertirmi un sacco come era giusto a quell’età (ho messo il primo piede in una redazione a 19 anni). Più tardi, invece, sono riuscita a sposarmi. A mettere al mondo due bambini (a raffica, uno dietro l’altro). E a seguirli nella crescita con un certo agio, grazie a un’organizzazione che teneva conto dei doveri e dei piaceri della nostra famiglia.
Per esempio, appassionata di sci concentravo le vacanze con gli struffolini in inverno. Mentre in estate li raggiungevo al mare nei weekend, approfittando delle giornate più lunghe. Che dilatavano i fine settimana. E consentivano un rientro a Milano il lunedì mattina, illuminato da albe scintillanti che mi caricavano di energia fino al venerdì successivo.
Insomma, se dovessi parlarvi del mio work life balance, posso dirvi che ha funzionato alla stragrande.
Si tratta del giusto equilibrio tra ciò che facciamo per vivere (senza stipendio non si va da nessuna parte) e ciò che ci gratifica. Ed è l’argomento dell’articolo Quanto pesa il tuo lavoro? su Confidenze in edicola adesso.
Ebbene, la mia professione non ha (quasi) mai pesato. Anzi, mi ha dato l’opportunità di avere due fronti sui quali muovermi, alleggerendo i problemi quando uno dei due non funzionava.
Mi spiego meglio: nei periodi neri sul privato, mi consolava l’idea di avere una scrivania che mi allontanasse dalle tensioni casalinghe. E viceversa. Non c’era momento più bello dell’uscire dalla redazione nei momenti più difficili.
Consapevole del fatto che tale baricentro mi calzava alla perfezione, non ho mai pensato di rinunciare al lavoro. Per ovvi motivi economici, è chiaro. Ma anche perché l’ho sempre vissuto come una parte importantissima di me.
Al punto che quando con le colleghe discutevamo su ciò che avremmo fatto se un ipotetico zio d’America ci avesse all’improvviso lasciato una quantità di soldi inimmaginabile, io ho sempre sostenuto che non mi sarei licenziata.
Una convinzione alla quale sono sempre più fedele, visto che lo smartworking ha regalato ai dipendenti l’eccezionale possibilità di gestire oneri e onori in maggiore autonomia.
E’ vero, da casa si lavora molto di più rispetto all’ufficio. Però si può fare dal mare, dalla montagna, da qualsiasi posto. Con la stessa appassionata dedizione, ma senza sentirsi imprigionati.
Per chi ama alla follia la propria professione, questa è la manna dal cielo. Infatti, alla domanda se il lavoro mi pesa, posso rispondere con estrema sincerità: «No, anzi. Mi rende leggera come una piuma».
Anche perché, a fine mese, quella piuma si becca pure uno stipendio. Insomma, unisce utile e dilettevole, in un perfetto work life balance.
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