Il mosaico della Memoria

Mondo
Ascolta la storia

Una storia vera per ricordare il Giorno della Memoria

L’uomo che ha cambiato la mia vita si chiamava Giona, aveva 92 anni ed era ospite della casa di riposo dove lavoravo come infermiera. Era un tipo gentile, spiritoso. Nascondeva un passato che voleva dimenticare. Ma che, invece, va ricordato

STORIA VERA DI DARIA F. RACCOLTA DA ALESSANDRA MAZZARA

 

Avevo 26 anni quando iniziai a lavorare nella casa di cura in cui viveva il signor Giona. Lo chiamerò così, pur non essendo questo il suo vero nome, solo per rispettare la riservatezza e il desiderio della dimenticanza che per anni hanno segnato la vita di un uomo entrato prepotentemente nei miei giorni, nei miei pensieri, e che mai andrà via dai miei ricordi. Ero una giovane donna piena di progetti ed entusiasmo: una laurea in Scienze Infermieristiche e in attesa di un concorso pubblico, avevo accolto l’assunzione in quella casa di riposo come un trampolino di lancio, un momento di pratica per fare quell’esperienza che mi avrebbe dato la giusta, prima, competenza per la corsia ospedaliera.

Inutile spiegarvi l’eccitazione che avevo addosso al mio primo giorno di lavoro, quando varcai per la prima volta la soglia della casa di cura che mi aveva assunta con un contratto a termine, in un freddo, freddissimo, mattino di inizio inverno. Mi occupavo di anziani con problemi di memoria, per lo più autosufficienti per quel che riguarda le funzioni principali, qualche iperteso e diabetico. Conobbi Gina, una novantaquattrenne convinta di essere oggi Jaqueline Kennedy, domani – guarda un po’ il caso! – Marylin Monroe; Giulio, ex vice comandante dei Carabinieri, che prima di ogni iniezione o medicazione pretendeva di metterci tutti – medici ed infermieri – sull’attenti, con tanto di mano sulla fronte; Clara e Sonia, due sorelle ottantenni inseparabili che passavano i pomeriggi a guardare in tv tutte le soap opera possibili e che poi confondevano la realtà dell’ospizio con quella delle telenovelas; Antonio, professore di greco e latino di quasi novant’anni che si struggeva d’amore per Silva, novantuno primavere alle spalle che non lo degnava neanche di uno sguardo perché innamorata di Fulvio, ottantottenne giocatore di briscola e convinto di essere Claudio Villa.

Era un mini mondo a metà tra l’innocenza dell’infanzia e la saggezza della vecchiaia, lo spazio dell’ospizio, una realtà che custodiva in sé pezzi di storia vivente in corpi fragili e in menti, a volte, tornate alla fanciullezza. Tra quelle mura le giornate si sommavano tra loro tutte uguali. Il tempo scorreva lento, come se non avesse più fretta di andare avanti, perché per loro, per i nostri vecchietti da curare e da accudire, il futuro non era più contemplato. Si viveva di ricordi e nell’attesa di un qualcosa che spaventava, ma che si aspettava con rassegnazione. Non potevo ancora sapere, né ancor meno immaginare, che laggiù, tra quelle mura, avrei incontrato presto una persona che avrebbe cambiato, rovesciato, scosso, la mia vita, dandole finalmente davvero un senso.

Era febbraio e veniva giù tanta neve quando due maternità e tre mobilità costrinsero la caposala a rivedere turni e distribuzione nei vari reparti. Mi furono assegnate, quindi, altre camere. E proprio in una di quelle conobbi il signor Giona.

Era un vecchietto minuto ed esile di novantadue anni, dai radi e sottili capelli bianchi e due bellissimi occhi azzurri in un viso segnato inesorabilmente dal passare del tempo. Sempre vestito di tutto punto, nei suoi pantaloni di velluto a coste marroni, il maglione blu con il gilet in tinta, il papillon rosso e le ciabatte ortopediche ai piedi, aveva personalizzato la sua stanza ricoprendo un’intera parete di orologi a cucù. Ce ne erano davvero tanti, tutti diversi per colori e dimensioni: tondi, rettangolari, a forma di casetta, di albero, di gnomo, una varietà così strabiliante ed infinita da perderci la testa

“Li ho fatti tutti io”, mi disse quel giorno, come a rispondere al mio sguardo incantato, rivolto alla parete. “Guardi”. Appoggiato al girello di metallo si avvicinò a passi lenti alla parete degli orologi e, con una mano ferma al girello, allungò l’altra per prenderne uno e me lo mostrò. “Questo è il mio primo orologio a cucù. Lo costruii con queste mi vecchie mani… avrò avuto sei, sette anni…”

Girò la chiave posta dietro e fece suonare l’ora. Sgranai gli occhi dalla meraviglia. Era grande una trentina di centimetri d’altezza, a forma di tronco d’albero, nel quale il Giona bambino aveva intagliato un incavo. Dentro, stava il congegno a molla, un uccellino dipinto di giallo che pigolava ad ogni rintocco d’ora piena, chiuso da una porticina.

“Wow! È… è davvero bello signor…”

“Giona. E la prego, signorina infermiera, mi dia del tu. C’è già lo specchio del bagno a ricordarmi ogni santo giorno quanto io sia vecchio”

“Sarà un piacere per me”, gli sorrisi di rimando, “a patto, però, che la cosa sia reciproca. Io sono Daria”

Gli occhi di Giona brillarono ancor di più e ci fu un attimo, un minuscolo frammento di secondo, in cui intravidi in quel suo sguardo dolce e limpido qualcosa di più profondo, come se Giona fosse in grado di vedere cose che i nostri sensi non ci permettono di percepire, come se fosse capace di andare oltre alla sola, nuda, apparenza.

“È strabiliante che un bambino possa realizzare una cosa così complicata…”, fu l’unica cosa che fui in grado di dire, l’orologio a cucù ancora tra le mani.

“Beh, Daria, che dire… ho avuto degli ottimi maestri. Mio padre, mio nonno e il mio bisnonno erano tutti mastri orologiai. Ho imparato da mio padre, stando con lui in bottega. Sai com’era ai tempi, no? Si studiava poco e si lavorava tanto, fin da piccolini…”

Accarezzai, sfiorandola con le dita, la superficie legnosa di quel cucù, impressionata dall’infinita quantità di secondi, minuti e ore segnate in tutti quegli anni.

“Deve essere meraviglioso, quasi magico, riuscire a trasformare un pezzo di legno in qualcosa di così unico… avrà sicuramente trasmesso ad un figlio, un nipote, la sua arte, no?”

Giona sollevò le spalle magre e il suo viso fu segnato da una smorfia triste e rassegnata. “Non ho figli, né nipoti. Ho chiuso la bottega quando queste mani hanno iniziato a tremare, stanche della vita. La mia arte morirà insieme a me”

“Beh, è un gran peccato”

“Certo, lo è. Ma la vita non sempre va secondo i nostri piani… non è che potresti riappenderlo, cara?”

“Certo”.

Riportai il cucù al suo posto. Qualcuno mi chiamò al di là del corridoio.

“Giona, devo andare. Vuoi che ti aiuti a metterti a letto?”

“No, no, cara. Starò qualche minuto qui al tavolino a leggere il giornale, poi raggiungerò gli altri vecchi matti come me nella sala comune per una briscola con Claudio Villa!”

Sorrisi. Giona era davvero un ometto divertente e piacevole “D’accordo. Per qualsiasi cosa, sai dove trovarmi”

Mi avvicinai alla porta, pronta per lasciare la stanza. Ma ferma sulla soglia, come mossa da un istinto incontrollabile, mi girai e lo guardai. Si era già seduto sulla poltrona, accanto ad un tavolino rettangolare, proprio sotto la finestra, il quotidiano spiegato davanti. Sembrava un bambino intento a leggere i fumetti. Qualcosa in quel vecchietto mi aveva colpita e scossa al tempo stesso. Non avrei saputo dire cosa, in quel momento.

Uscii fuori. Il ticchettio degli orologi a cucù a seguire i miei passi, lungo il corridoio.

 

Bastò un mese, o forse anche meno, per diventare amici. Un’amicizia davvero inusitata, vista l’enorme differenza di età che ci separava. Era un vecchietto abbastanza in salute, godeva di una buona costituzione, nonostante dall’aspetto fisico si potesse immaginare il contrario, aveva davvero bisogno di poco: un prelievo di sangue ogni mese, misurazione della pressione ogni dieci giorni, un diuretico al mattino ogni giorno e un po’ di ginnastica muscolare per le gambe al pomeriggio. Come tanti vecchietti, aveva anche le sue stravaganze: ogni giorno indossava un papillon diverso a seconda del giorno della settimana, una passione smodata per Forum, che voleva seguire da solo e in assoluto silenzio, e al momento dei prelievi di sangue dava sempre il braccio destro, mai il sinistro. Una volta che potevo mi rifugiavo nella sua stanza ad ascoltare le sue storie. Aveva la meravigliosa capacità di narrare gli eventi della sua vita con una dettagliata descrizione non solo dei luoghi e delle persone vissute e conosciute, ma anche degli stati d’animo, delle turbolenze e dei sereni della vita di ognuno. Così, seppi che era nato alla fine del 1926 in una famiglia umile. Figlio unico di genitori in là con gli anni, il padre era, appunto, un orologiaio e portava avanti la bottega storica di famiglia. La madre, invece, come spesso accadeva ai tempi, si occupava della famiglia e della casa, tre stanze al piano terra sempre piene di parenti e amici. La guerra aveva, però, come fa sempre, fermato tutto, lasciando le cose, i progetti e il tempo in sospeso. La bottega era stata chiusa e, per motivi che Giona non ricordava essendo all’epoca poco più che un ragazzino, erano partiti tutti per la Svizzera, dove viveva un fratello della madre. Laggiù erano rimasti fino a guerra finita. Poi, tornati in paese, il padre aveva riaperto la bottega e preso Giona con sè per tramandargli il mestiere. L’arte orologiaia aveva affascinato il giovane Giona fino a dedicarle tutto il suo tempo.

“E le ragazze?”, le chiesi un pomeriggio di tuoni e fulmini, tutti e due davanti ad una tazza di latte e miele fumante.

“Qualcuna, ogni tanto, tra un’ora e una mezza!”.

Sapeva essere anche molto spiritoso, Giona. Passava dalla leggerezza alla saggezza in un batter di ciglia. Le sue storie, i suoi racconti, erano minuscoli tasselli di un grande mosaico fatto di tante gioie e di altrettanti dolori.

“I miei genitori morirono quasi centenari. Li ho accuditi fino al loro ultimo respiro, stringendo loro la mano come ogni figlio dovrebbe fare… mi mancano ancora oggi, Daria. Sono un vecchio, eppure sogno ancora gli abbracci di mia mamma e le pacche sulle spalle di papà…”

Rimasto orfano, Giona visse i suoi anni da solo, diviso tra la bottega e la casetta al piano terra. A fargli compagnia, un cane meticcio trovato per strada.

“Era bagnato fradicio ed infreddolito, povera stella. Lo presi con me, gli diedi una bella lavata e lo portai a casa dove, poverino, mangiò come non vedesse cibo da secoli. Era un incrocio tra un Border Collie e un setter di circa tre anni, almeno fu questo quello che mi disse il veterinario, quando lo portai per una visita di controllo. Lo chiamai Fortunato e visse con me altri dodici, lunghi e affiatatissimi anni. Facevamo tutto insieme. Pensa, Daria, veniva pure in bottega e bastava che gli dicessi: ‘Fortunato, va’ a prendermi quel seghetto laggiù’ e lui, via, lo prendeva e me lo portava. Gli mancava la parola, era come se da un giorno all’altro mi aspettassi di sentirlo parlare… quando mi lasciò avevo ottant’anni. Troppo triste per tirare avanti con la vita di sempre, troppo stanco per lavorare, chiusi la bottega e venni qua, dove vivo ormai da qualche anno…”

Si era alzato, aveva aperto un cassetto dell’armadio e tirato fuori una piccola bustina trasparente. “Eccolo qui. Lui è Fortunato”

Presi la foto. Ritraeva un Giona settantenne seduto su una poltrona di vimini e con Fortunato ai suoi pieni.

“Fortunato non solo nell’essere stato salvato, ma anche per aver vissuto con una bella persona come te”, gli dissi ridandogli la foto, mentre il ticchettio dei cucù riempiva gli spazi silenziosi delle nostre chiacchierate quotidiane.

“A volte non so, però, se sia stato io a salvare lui o lui me…”

Giona disse quella frase con una tristezza negli occhi che mai in quei mesi gli avevo visto. Gli chiesi cosa intendesse, ma lui fece spallucce, baciò la foto come fosse un santino, e se la mise in tasca.

Sei mesi dopo vinsi un concorso pubblico per un ospedale del centro Italia. Lasciai l’ospizio tra abbracci e lacrime. Avevo imparato davvero tanto laggiù e tanto avevo ricevuto. Giona mi regalò un cucù: una casetta rossa con una porticina che, all’ora esatta, si apriva per liberare una bambina con le trecce, seduta su un’altalena.

“Scrivimi, Daria”, mi disse trattenendo le lacrime.

Le lettere furono così tante da riempire due scatole di scarpe. Io raccontavo a Giona dei miei colleghi, della nuova città in cui mi ero trasferita, del mio lavoro, e lui un po’ tornava ai suoi racconti del passato, un po’ mi aggiornava sulla vita all’ospizio. Poi, a settembre, le lettere cessarono di giungere al mio indirizzo. Mi promisi di chiamare il prima possibile la casa di cura, ma furono loro ad anticiparmi. Giona se ne era andato in una notte di fine agosto, nel sonno. Nel sistemare la sua stanza per accogliere un altro ospite, avevano trovato una lettera senza busta. L’avevano letta. Giona mi faceva erede dell’unica cosa mai posseduta: i suoi cucù. In più, c’era per me un’altra missiva, chiusa, sempre indirizzata a me. Presi un giorno di ferie e tornai all’ospizio. L’assenza di Giona era così pesante da fare male. Gli orologi erano stati tutti imballati in due scatoloni. Quando aprii la lettera e ne lessi il contenuto, lacrime su lacrime cominciarono a cadere giù, rigandomi il volto.

“Cara Daria,

conoscere te è stato per me motivo di profonda riflessione. Per anni mi sono nascosto dietro ad un dolore così indicibile da volerlo dimenticare, inventandomi per tutti una vita che mai mi è davvero appartenuta. Perché, sai, Daria, ci sono sofferenze che la vita ti infligge ingiustamente e che tu devi sopportare per mandarla avanti. Non c’è stata nessuna Svizzera per me, nessun padre e nessuna madre morti centenari. C’è stata, al posto di tutto questo, la colpa di esser nati ebrei in un momento della Storia in cui esserlo voleva dire morire. Ci hanno tolto tutto. La bottega di papà presa a sputi e a sassate. Ero un ragazzino quando ci vennero a prendere, caricandoci su camionette e urlandoci contro parole in una lingua così dura da fare male le orecchie, verso una direzione che nessuno conosceva, né avrebbe mai potuto anche solo immaginare. Ad Auschwitz mi separarono dai miei genitori. Mamma con le donne, io e papà tra gli uomini. Lui a sinistra, io a destra. Li salutai con un cenno della mano e un bacio volò verso la mia bellissima, dolcissima, mamma. Quella fu l’ultima volta che li vidi. E quando seppi che il fumo nero che usciva via dai comignoli era quel che di loro restava, vomitai fino a sputare bile. Mi tatuarono una sequenza di numeri sul braccio sinistro: quella fu la mia identità. Giona non c’era più. Mi affidarono fin da subito l’atroce compito di spostare i cadaveri di tutti nei crematori. Ogni giorno per anni ho toccato e visto solo morte. Finita la guerra e libero, avevo gli occhi e l’anima così pieni di morte da non essere più capace di vedere quel che di vivo attorno a me ancora c’era. Riaprii la bottega, ricominciai a lavorare, ma era tutto troppo doloroso per me. Così, lasciai il paesino dov’ero nato e cresciuto e mi trasferii quassù, tra boschi e montagne innevate, con un’altra vita cucita addosso. Quando incontrai quel cane, fu come se nelle sue ferite, nella sua solitudine, rivedessi me stesso. E fummo, l’uno per l’altro, compagno, sostegno, amico, conforto. Per questo, spesso, penso sia stato più lui a salvare me. O, forse, semplicemente, ci siamo salvati a vicenda. Pensa, Daria: Fortunato fu l’unico a vedere il mio tatuaggio numerico. Come se ne intuisse il significato, leccava dolcemente quei numeri, come a sanare una ferita. Per questo non ho mai permesso a nessun infermiere di prelevare dal mio braccio sinistro: non volevo che altri sapessero… volevo solo dimenticare, Daria. Ma non sono bastati neanche tutti questi anni.

 Non ci sarà posto alcuno in cui potrai venire a piangere per me, nessuna tomba: ho voluto che mi cremassero e che spargessero le mie ceneri donandole al vento che sibila tra i boschi. Sono cenere, adesso, cara Daria. Così come lo sono la mia mamma e il mio papà…”

Sistemai i cucù nel mio piccolo appartamento, alcuni li regalai. La foto di Giona con Fortunato sta sulla mia scrivania. La lettera, invece, è chiusa in un cassetto. La tiro fuori e la metto in borsa, poi velocemente salgo in macchina, dritta verso il centro città, dove mi aspetta la quinta classe di un liceo classico. Da un anno e mezzo, ormai, giro per le scuole a raccontare di Giona. Leggo la sua lettera, racconto la sua storia, e ogni volta è come se lo avessi accanto a me. La sua presenza è forte, la sua voce echeggia e rimbomba tra le mura delle classi. Adesso, Giona, non è più solo cenere. È memoria. È Storia. Monito per le generazioni che verranno. Perché quanto accaduto non avvenga mai più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Confidenze