Storia vera di Costanza Mignanelli raccolta da Nadia Nunzi
Perché non ero magra come le altre? Era la domanda che mi affliggeva fin da bambina e così smisi di mangiare, sognando di diventare modella. Fu solo quando rischiai la vita che mi riscossi. E iniziai a risalire la china
Da bambina amavo giocare a fare la modella. Indossare vestiti diversi mi permetteva di cambiare identità ed essere ogni volta un personaggio nuovo mi piaceva, mi permetteva di esprimere tutto ciò che avevo dentro in base ai miei stati d’animo.Era un gioco che mi divertiva molto nonostante non mi sentissi a mio agio con il mio corpo e lo reputassi meno bello rispetto a quello delle altre bambine. Mi sentivo inferiore e quando all’età di otto anni iniziai a praticare la danza, questo malessere si intensificò. Di fatto le bambine fin troppo magre venivano esposte in bella mostra sempre in prima fila e io restavo dietro, come se dal peso dipendessero anche la mia bravura e la passione. Essere messa in fondo, dietro a tutte, mi portava inevitabilmente a confrontarmi e a sentirmi meno valida.Iniziai così ad associare sempre più il mio valore all’aspetto fisico. Eppure non ero sovrappeso, semplicemente le altre erano più magre e venivano valorizzate per questo. Perlomeno ai miei occhi. Ho ancora ben impresso il ricordo di un giorno in particolare.
Stavamo facendo le prove per una coreografia che prevedeva l’uso di una sedia. Dovevamo salirci sopra e quando lo feci di slancio, si ruppe e caddi a terra. In quel momento mi sentii morire. Tutte erano saltate sulla sedia, ma solo a me si era rotta e questo fu l’ennesimo indicatore della mia inadeguatezza.
Ero sbagliata, goffa, pesante.
Di certo fuori luogo e non adatta per quella parte. Figuriamoci per fare la modella!
Questo pensava la mia mente svalutante. Le amiche mi sorrisero e mi abbracciarono, vedendomi in lacrime. E l’insegnante provò a rassicurarmi.
«Costi, non è successo niente. Sono cose che capitano durante le esibizioni e sarebbe potuto accadere a chiunque» mi disse.
Ma era accaduto a me e lo vivevo come qualcosa di drammatico, umiliante e insostenibile.
Per due settimane rimasi chiusa in casa, in camera mia e piansi fino allo stremo.
Perché non ero magra come le altre? Mi chiedevo.
Passato lo sconforto di quei giorni decisi comunque di rientrare nella scuola e proseguii con la danza fino a 20 anni. Nel frattempo il mio fisico esplose nelle sue forme di donna e lo fece senza preavviso, di colpo, durante l’estate.
Come potevo sostenere anche quello? Non lo accettavo.
Mi sentivo tradita dal mio corpo e non volevo che cambiasse, diventando ancora più morbido.
Iniziai a riempire i diari scolastici di foto dove segnavo il mio volto con una croce, adornandoli con commenti di sdegno verso me stessa.
Cominciai a mangiare sempre meno, a controllare il peso e i pasti, orgogliosa ogni volta che riuscivo a digiunare per un giorno intero.
Stavo inviando sempre più segnali ma il mondo intorno a me sembrava non accorgersi di niente. I miei genitori attribuivano i miei comportamenti a una fase tipica delle adolescenti e non gli davano troppo peso.
«Tu ti fai sempre troppi problemi» mi dicevano, minimizzando il mio malessere.
Continuai così a vivere il mio disagio in solitaria, sognando ancora di posare come modella e, con l’occasione di dover seguire un master dopo essermi laureata in Lingue, mi trasferii a Milano per sperimentare un po’ più da vicino quel mondo patinato a cui ambivo. Ovviamente anche lì mi scontrai di nuovo con la magrezza che mi circondava che mi metteva davanti a una realtà di taglie 38 di cui non avrei mai potuto far parte. Arrivai a non reggermi quasi più in piedi a forza di digiuni e ben presto i disturbi psicofisici si manifestarono in tutta la loro intensità.
A quel punto mi resi conto di non avere più il controllo e di aver superato un limite.
Preoccupata, decisi di rientrare a casa e chiesi io stessa il ricovero, accompagnata da mia madre. Nei giorni a seguire venni isolata dai familiari e iniziò quello che ricordo come il periodo più difficile della mia vita. Io che non volevo crescere perché temevo di non farcela da sola, di non sopportate il peso del giudizio altrui, mi ritrovai unicamente con me stessa.
Non potevo più scappare da ciò che mi mangiava dentro e dovetti farci i conti.
Nel reparto vagabondavano come fantasmi ragazze scheletriche dallo sguardo perso che non superavano i 27 chili, e alcune avevano i giorni contati. Iniziai a rendermi sempre più conto della gravità della situazione e forse per la prima volta ebbi davvero paura di morire. Inoltre, condividevo la stanza con una ragazza che veniva nutrita attraverso un sondino introdotto nel naso, e nel guardarla vidi la futura me stessa se avessi deciso di continuare con i digiuni.
«Costanza, ora sta a te. O mangi o domani mettiamo anche a te il sondino» mi disse il dottore che mi seguiva. Al suono di quella frase, si risvegliò in me la parte ancora sana che voleva farcela. Non è stato semplice, ma il cammino verso la risalita fuori dal tunnel è iniziato con la mia decisione. Nessun altro avrebbe potuto salvarmi se non l’avessi deciso prima io e non ci avessi messo la forza di volontà.
La psicoterapeuta che mi ha affiancata per due anni e mezzo è stata fondamentale per la mia guarigione, ma senza il mio consenso alla vita non ce l’avrei fatta. La malattia ti offusca la mente ma dietro di essa c’è un disagio che vuole essere ascoltato che urla attraverso il corpo, non trovando altro modo per farsi notare. Dietro quel malessere si nascondeva la paura della cattiveria del mondo, la paura di lasciare il rifugio sicuro della casa di famiglia.
Ma in quelle prime due settimane in ospedale, sola con me stessa, ho sviluppato la forza di farcela ed è la stessa forza che mi permette oggi di essere autonoma, di fare un lavoro indipendente e di muovermi contando su me stessa come non avrei mai immaginato.
Ho deciso di mettermi in gioco, di osare e dimostrarmi il mio valore che non dipende né dal peso né dal giudizio altrui ma unicamente dallo sguardo che ho io su di me. E con quello sguardo davanti allo specchio non mi svaluto più e ricordo a me stessa l’importanza di avere il coraggio di piacersi esattamente così come si è. E non mi importa più se non sono una taglia 38 e se non sfilerò sulle passerelle. Oggi so che posso comunque indossare gli abiti che voglio, dando spazio a tutte le sfaccettature che mi rappresentano e lasciando ancora libera di esprimersi quella bambina che amava farlo e che vivrà sempre dentro di me. ●
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