Sul numero di Confidenze in edicola adesso è segnalato Le lettere di Esther di tale Cécile Pivot, una correttrice di bozze francese che gestisce una libreria a Lille e che, alla bell’età di 65 anni, ha deciso di esordire con il suo primo romanzo.
In realtà io non l’ho ancora letto, ma credo che lo farò presto. Madame Pivot, infatti, parla del potere salvifico della scrittura. Tant’è che la sua opera raccoglie le rivelazioni degli angoli bui dell’anima di persone qualsiasi, invitate a raccontarli a gente completamente sconosciuta.
L’esperimento sembra interessantissimo. E mi fa venire in mente quanto mettere su carta le proprie emozioni sia benefico e aiuti sul serio a riportare un po’ di pace in noi stessi.
Io ho iniziato a farlo sin da ragazzina, perché scrivere mi è sempre piaciuto. Nel tempo, però, mi sono anche resa conto che non era casuale come prendevo il via. Infatti, quando tutto andava alla grande l’istinto mi spingeva a inventare storielle buffe. Mentre nei momenti di disastro, usavo quest’arte per sfogarmi, riordinare le idee e decidere come risolvere la situazione.
Sì, perché buttare giù tutto quello che mi passava per la testa senza la paura di essere giudicata (mi trovavo a tu per tu soltanto con il mio fidato diario), era una cura per formidabile per lo spirito.
E continua a esserlo ancora oggi: rileggere a freddo ciò che scrivo di getto mi permette, appunto, di analizzare con lucidità le parole uscite con foga. Mi dà una mano a individuare le esatte ragioni della mia rabbia o tristezza. E mi offre lo stimolo per cercare la direzione giusta verso il buonumore.
Non so come la pensiate, ma tutto ciò non è roba da poco. D’altronde, della potenza riparatrice della scrittura non sono certo l’unica paladina. La prova è che tra poeti, romanzieri, cantautori e aspiranti tali, di gente che si affida a questo “strumento” per esprimere liberamente i propri sentimenti e alleggerire l’animo ce n’è a bizzeffe. Anche perché avere a che fare con un foglio di carta o una tastiera del PC ha un enorme vantaggio: nessuno può interromperti.
Il dettaglio è importantissimo, visto che assicura, nell’ordine, la possibilità di non perdere il filo, con il rischio di non ricordare più quello che volevi dire. E di non doverti concentrare sul linguaggio, perché in quei momenti ti stai rivolgendo solo a te stesso.
Detto questo, scrivere è tanto altro. Per chi fa il mio lavoro, per esempio, significa documentare in modo personale un fatto di cronaca. Presentare a chi legge un personaggio che ha rilasciato un’intervista. Oppure, come succede a me con i post di Confidenze, è un’occasione per condividere argomenti disparati con un pubblico più vasto del solito (adorato) gruppo di amici.
Ma non è tutto. Perché anche il semplice digitare un Whatsapp è una forma di scrittura da non sottovalutare. Il messaggio ben formulato, infatti, può riavvicinare gli innamorati dopo una litigata. Consente di partecipare a gioie o dolori delle persone a cui vogliamo bene. Rende un invito già gradito ancora più festoso.
In questi casi, però, al testo è ormai consueto aggiungere una sfilza di emoticon. Ovvero, i faccini che presto ruberanno le scrivanie a noi giornalisti, visto che a volte basta quello azzeccato per comunicare più di mille parole.
Un’impresa ciclopica per dei tondini minuscoli. Eppure, talmente potenti che un giorno magari sostituiranno titoli e sommari anche su quotidiani, settimanali e mensili. Un’ipotesi che, se dovesse diventare realtà, ci vedrebbe tutti pronti a comprare i giornali in edicole completamente tinte di giallo.
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