“Aveva raccolto intorno a sé un gruppo di buoni a nulla, figli unici come lui, oppure orfani, o uomini che non potevano guardare in faccia una donna. Uomini che andavano in giro parlando da soli, o che erano invecchiati quando erano ancora giovani. Nessuno era normale. Sì, dei buoni a nulla, anche se lui, malgrado tutto, non lo era; avrebbe potuto fare qualunque cosa, anche restarsene tranquillo, perché aveva questa rarissima capacità: stare da solo senza patire la solitudine, guardare una donna come se fosse sua pari”.
Con il velo azzurro sui capelli, il capo chinato, le mani giunte. L’abbiamo sempre immaginata così, Maria. L’abbiamo sempre vista così, sorridente appena e piena di grazia. La Madonna, la Vergine, l’Immacolata. Maria, una donna. Una moglie. Una madre.
Nelle Sacre Scritture abbiamo concesso il dubbio al Cristo. Distrutto dal dolore l’Uomo fatto ancora di carne grida inchiodato a una croce: «Padre mio, perché mi hai abbandonato?». Non può esistere Fede senza la fragilità di una tensione potente ma impalpabile verso un Padre, un Dio.
Tóibín fa parlare Maria. La madre. La moglie. La donna fatta di carne e cuore disperata, piena di paura e nostalgia, racconta l’immensità dei giorni che hanno fatto non la storia ma il Mondo e oltre. L’immensità infinitesimale di azioni incomprensibili per una donna che ama il proprio figlio. L’autore irlandese regala alla Signora la preghiera più bella: la restituzione della dignità del dolore che porta una madre a dire: “non mi interessa la salvezza di tutti i tempi e di tutte le genti, voglio mio figlio“.
L’autore irlandese regala alla Donna la scelta umana “figlio mio non voglio vedere quello che ti fanno, non voglio. Non posso più fare nulla, scappo via da questo monte e dalla vista del tuo corpo martoriato”.
È splendida e regale, l’Ancella del Signore, nel suo chiudere gli occhi, nel suo provare imbarazzo. Vergogna. Nel suo recriminare.
“So di volere di più da questo mondo. Non molto, ma di più. È semplice. Se l’acqua può essere trasformata in vino e i morti possono essere fatti resuscitare, voglio che il tempo si riavvolga. Voglio tornare a vivere prima della morte di mio figlio, o prima di quando se ne andò da casa, quando era un bambino, suo padre c’era ancora e la vita sembrava aprirsi davanti a noi.
Tutto questo è passato. Il ragazzo divenne uomo, lasciò la sua casa, divenne una figura morente su una croce. Vorrei essere in grado di immaginare che quanto gli è successo invece non succederà. Che verrà deciso di rimandarlo, di non farlo capitare a noi. E che saremo lasciati in pace, e potremo invecchiare”.
Non esiste Madre che non sfidi anche solo con una lacrima il disegno dell’Onnipotente. Come tutte, finalmente, Maria.
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Colm Tóibín, Il testamento di Maria, Bompiani
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