Non so ora, ma ai miei tempi, dopo il liceo dovevi riscoprire da solo i grandi della letteratura, disintossicandoti da come te li avevano fatta odiare a scuola. Le mie prigioni di Silvio Pellico, per esempio, pareva noiosissimo. E invece! Chi se lo immaginava che fosse una guida per innamorarsi nelle prigioni austriache?
L’autore è un maniaco sentimentale, un maniaco del genere umano ma anche animale e vegetale, si attacca a tutti. Dalla soave Zanze, figlia del carceriere Schiller, allo stesso Schiller, col quale si sviluppa una vera passione, fatta di liti, riconciliazioni, musi…e poi con Oroboni, con Maroncelli, con tutti, con tutti! È una dichiarazione d’amore senza fine, con care ingenuità – il letto di Oroboni (nel quale Silvio si adagia con languore di sposa dopo che l’amico ha lasciato il carcere), i sospiri per la sentinella che tarda a passare, facendolo morire di batticuore. Ci fu anche un ragno. Quel caro ragno, che lo seduce, si finge affezionato ma poi capricciosamente sparisce. E lui sta in pena, pensando che chi occuperà la cella dopo di lui distruggerà con un calcio quella bella tela, e arriverà magari a schiacciarlo! Silvio si droga di caffè per scrivere al compagno di prigionia, libertino incallito, che cerca di indirizzare alla virtù. Ma lui gli dà del bigotto e si guastano senza rimedio, lasciando disoccupato Tremarello, l’inserviente carcerario che era stato il loro the go between. Quanto alla Zanze, per fortuna che è brutta, se no le nostre familiarità darebbero a ridire. Ripensandoci la notte, però, decide che non è mica da buttare. Ma lei lo tratta come un padre, gli piange fra le braccia per amore di un altro, e lui esclama Ma ho solo trent’anni!
A scuola ci dicevano Le mie prigioni costò all’Austria più di una battaglia perduta. Ma perché, se alla fine uno vorrebbe solo andare a innamorarsi allo Spielberg?
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