Storia vera di Luca d. Raccolta da Elena Macchi
«Si, certo. Ho capito Dennis. Non c’è bisogno che tu me lo ripeta all’infinito». La mia voce si altera, e attraverso il cellulare ascolto la risposta di Dennis. Non ribatto, ma è proprio come pensavo: lui teme che io mi stia demotivando. Si sbaglia, non è affatto così che stanno le cose. Sono agitato, chiudo la chiamata e allungo il passo. Sono solo sotto pressione, a causa degli ultimi due esami che precedono la mia tanto agognata laurea in Scienze e tecnologie farmaceutiche.
Ecco come stanno le cose. Vorrei tanto gridarlo a Dennis, ma sarebbe come gettare una bottiglia con quel messaggio, in un mare senza onde: capace solo di farla affondare. Ma va bene così, ce la farò anche questa volta.
Ho fatto la mia scelta parecchi anni fa, senza pensarci troppo. Ero solo un ragazzino e mi è capitata un’occasione, senza forzature. All’inizio era quasi un gioco. E ora eccomi qui: sono uno studente lavoratore. Sono un indossatore, lavoro nel mondo della moda. Occorre organizzazione e metodicità. Non si sta mai fermi, non ci si annoia mai, è un vortice continuo di giorni pieni di entusiasmo e voglia di fare. È la potenza della carica di una sveglia, con le lancette sempre in corsa, sul tempo che vuole scappare dalla trappola dei suoi giorni. Il mio primo, chiamiamolo così, “defilè”, si è svolto nell’ufficio di mio zio Tommaso, il fratello di mamma. Lui ha un’azienda che crea modelli esclusivi e confeziona abbigliamento da 0 a 16 anni. Lo zio non ha figli e per me è un secondo papà. La mia prima passerella è stata una pedana rotante, dove io, fermo come un merluzzo infiocchettato giravo su me stesso, attorniato dagli sguardi affettuosi e benevoli delle lavoranti che, partendo da un modello prototipo, avevano il compito di sviluppare le varie taglie. Avevo otto anni. Sono stato un bambino “modello”. Felice.
Ora ho 23 anni, sono diventato un indossatore professionista e impegnato, ma il mio non è più un gioco. Negli anni, come una vera e propria scalata, ho sfilato su molte passerelle, da quelle poco impegnative del negozio di paese a quelle internazionali, fino a farlo diventare un vero lavoro. Controllo l’orario del treno: 19.45. Cammino di buon passo, rincorrendo il tempo negli ultimi raggi dorati di questo pomeriggio di giugno. Si è aperta la sessione estiva. Ho due esami arretrati e tre sfilate che mi attendono. Le prime date, quella della sfilata a Parigi e dell’esame di Biologia molecolare, quasi si sovrappongono. Non m’importa: tanta adrenalina, e poco tempo per preparare tutto. Nessuna novità.
Seduto in metropolitana finalmente mi sto rilassando, anche se mi sono rimaste in testa le parole dall’intonazione preoccupata di Dennis, il mio agente. Lui ha il compito di tenere i contatti con i clienti, le case di moda, propormi come indossatore, più semplicemente: trovarmi ingaggi. Quindi, i suoi discorsi sono sempre del tipo: «Mi raccomando Luca, ti vedo un po’ sottotono. Fai attenzione alla dieta, alla bilancia, conosci il limite. Stasera a letto presto. Hai appuntato gli impegni sull’agenda?». Sbuffo guardando fuori dal finestrino. Il treno corre tra le campagne gialle di grano, punteggiato dal rosso dei papaveri. Guardando il paesaggio mi viene voglia di libertà e mi sorprendo a pensare con una strana nostalgia al campo di lavanda del nonno, alle mie vacanze da bambino. Da quando non ci torno?
Due messaggi WhatsApp. È mamma. “Ciao tesoro. Ti ho lasciato la valigia fatta. Ho preparato i libri da mettere nel bagaglio a mano, per favore controlla che siano quelli giusti. Torno a casa. Ci sentiamo presto”. Il secondo sono tante faccine che mandano baci. Ho affittato un piccolo appartamento a Milano, così da ottimizzare i tempi ed essere più vicino all’università e all’agenzia di moda per cui lavoro. La mia famiglia invece vive a un’ora di macchina dalla città. Mamma passa da me una volta a settimana. Io la prendo un po’ in giro dicendole che non ci sa proprio stare senza il suo “bambino”. Qui a quanto pare, la mano di mamma, oltre che dalla valigia, è passata anche dal freezer, straripante di succulenti pacchetti avvolti nella carta stagnola. Quando tornerò da Parigi, dopo la sfilata, sa che dovrò rimanere concentrato e chiuso in casa a studiare. Questa alternanza è impegnativa, molto stancante, ma ci sta.
Mi gira e rigira in testa un pezzetto di strofa della canzone del festival di Sanremo Fino a qui di Alessandra Amoroso, mi è rimasta in mente e la canticchio sottovoce. “Fino a qui, tutto bene”. Faccio tutto quello che mi ha raccomandato Dennis, più una lunga doccia rilassante, e mi sdraio sul letto. Chiudo gli occhi. Sento il profumo semplice ma intenso della lavanda. Gli alambicchi trasparenti brillano, pieni delle preziose gocce di olio essenziale, e sono tutti schierati sulla scrivania del nonno. Io sfilo davanti a lui, indossando un impeccabile completo di lino bianco, elegantissimo. Nel taschino della giacca, ho infilato un mazzetto di lavanda. Quando mi risveglio in questo raggiante mattino d’estate, non mi sento riposato, ho un senso di spossatezza, e mi sorprendo a desiderare di non avere impegni, nessun appuntamento per la partenza, nessuna pressione da parte di Dennis. Sento improvvisamente fastidioso tutto quello che mi aspetta.
All’imbarco in aeroporto mi raggiunge Dennis con la sua carica: «Ciao Luca, tutto a posto? La forma è perfetta, vero?». Si ferma e mi guarda in modo strano «Tutto ok?».
«Sì, fino a qui tutto bene».
Voliamo verso Parigi. Dennis parla e parla. Sento la sua voce, ma non la ascolto, è solo un sottofondo tedioso che accompagna i miei pensieri. Mi sento un po’ strano, ripenso al mio sogno, mi ha lasciato una sensazione che non saprei definire, ma è così tenace che non mi ha ancora abbandonato. Poi qui, nel backstage, è tutto come sempre, anche questa volta. I ritmi stritolanti, che non conoscono soste, abitano le quattro pareti del camerino, dove il susseguirsi delle stagioni è scandito solo dalla consistenza dei tessuti e dai colori degli abiti che transitano veloci sulle grucce. La velocità delle azioni, l’ansia nei pensieri, una sequenza di volti, corpi, abiti, luci, macchine da presa. Le prove generali, l’organizzazione e l’attenzione particolare dei dettagli, studiati e ripassati con minuziosa perfezione. Tutto con alte aspettative, tutto per arrivare al massimo, in poco, pochissimo tempo. Oggi per la prima volta, mi chiedo se tutto questo abbia un senso. Io e gli altri ragazzi ci prepariamo per le prove: tappa per l’acconciatura, per il trucco di quella che sarà la sfilata ufficiale, per la presentazione della nuova collezione autunno /inverno. Massimo una ventina di minuti, trascorsi passeggiando con un portamento perfetto, dove non mi è permesso sbagliare nulla, perché mille occhi umani e meccanici, così diversi da quelli benevoli delle lavoranti, mi guardano, scannerizzando ogni mio piccolo dettaglio, ogni mia mossa. Il capo che indosserò deve essere valorizzato, evidenziato, portato all’apice dei desideri. In poche parole deve prendere vita, e dovrò essere io donarla. Sarà indossato sui red carpet da personaggi di fama mondiale. Fotografato e pubblicato sui rotocalchi di moda. Sfilo. Forse per la prima volta, non ho nemmeno guardato il capo che mi hanno aiutato ad indossare. Sono passato davanti allo specchio, pochi secondi, non ne ho visto nemmeno il colore. Ho salutato appena i miei colleghi. Oggi sono inquieto. Ho mille pensieri e mille domande. Una su tutte: io mi sto adattando a questa situazione? O la desidero con tutto me stesso? Il mio passo non è cadenzato. Dennis mi ferma, mi dice che si vede che sono stanco.
«Sì, hai ragione sono stanco, scusami» sulla fronte, gocce di sudore. Mi appoggia una mano sulla spalla, la stringe con una leggera pressione. «Tranquillo è tutto ok». Lo guardo stupito, non sono abituato a troppa comprensione. Il secondo giorno di prova va decisamente meglio, Dennis è più rilassato. Ma in verità va meglio perché sono abituato ai sacrifici e ho deciso io che doveva andare meglio. Di fatto, sto fingendo. Me ne sono reso conto piano piano, avanzando passo dopo passo, come su una passerella. Ma fino a quando riuscirò a fingere? A nascondere l’ormai mancanza di entusiasmo in tutto quello che faccio, anche nello studio? La svogliatezza, l’ansia che sale, l’incapacità di affrontare i nuovi progetti, che questi ultimi due esami mi consentirebbero di mettere in pratica.
Con questi pensieri è arrivato il giorno della sfilata. Ecco accendersi la luce dei riflettori, e come una piccola scintilla, scende su di me, su di noi, che usciamo in passerella uno dopo l’altro, a testa alta, il busto eretto, lo sguardo espressivo, il passo deciso, studiato e regolare, I movimenti sciolti e leggeri prendono vita, come il capo che indossiamo. Abbiamo il compito di essere carismatici, trasmettere. Per me oggi è difficile. Ho un solo desiderio in testa: che questa sia la mia ultima volta. Mi sforzo di cancellarlo, ma ritorna prepotente. Non mi deve tradire, non deve essere visibile su questo palcoscenico, forse fra un momento ma non ora! Sono proprio sotto il riflettore, lo sforzo di trattenere una lacrima è stato inutile, è stato immortalato dai tanti obiettivi che mi seguono e io non sopporto più. Ho combinato un disastro nel silenzio di quella lacrima. Lo so. Lei oggi ha parlato per me. Lo ammetto anche con Dennis, ma questa volta non chiedo scusa. Lo sto guardando negli occhi mentre finalmente le parole si liberano. Le sento vibrare, forti e sicure: «Io mi fermo qui».
I campi di lavanda stanno sbocciando con una meravigliosa fioritura dalle mille sfumatura di lilla. Le lunghe ed esili spighe deliziosamente profumate mi ricordano in qualche modo l’eleganza e la leggiadria delle mie colleghe indossatrici, che sono rimaste a sfilare su quelle tanto luminose quanto faticose passerelle, di cui io non sento nostalgia. Quel giorno in camerino dopo la sfilata, le lacrime non si sono fermate, e non lo hanno fatto nemmeno quando sono tornato a casa, con il bagaglio a mano pieno di libri ancora intatto, come me lo aveva preparato mamma. Lei mi ha capito subito, anzi nel dispiacere mi è parsa sollevata. Siamo partiti con il cuore pesante, ma senza valigie. Lei mi ha portato via, senza chiedere, sapeva già dove. Sono tornato nella casa del nonno, tra i campi e gli alambicchi del sogno, nel laboratorio di distillazione della lavanda. Sono più sereno, ma il pianto a volte mi sorprende ancora. Qualche giorno fa, ho iniziato un percorso da un analista, che mi ha parlato di sindrome da “burnout”, la traduzione del significato in italiano è “spegnimento”. Era, ed è con me da un po’ di tempo, anche se non conoscevo il suo nome. È una condizione di stress persistente e continuativo, dovuta a professioni con attività molto pressanti e alte aspettative. A un sovraccarico di impegni. Apro la finestra, respiro e chiudo gli occhi. Oggi ho un nuovo appuntamento, per raggiungere in fretta il tempo della mia guarigione. Ma intanto mi godo la spensieratezza di questo alito leggero che già agita le spighe lilla, blu e viola, sbocciate durante le notti d’estate, sempre preludio di giorni dove succederanno cose belle, come quelle che ho intenzione di coltivare: i miei studi che ho scoperto essere vicinissimi a questo posto che amo, nel laboratorio di cosmesi del nonno. ●
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