Mentre in alcune nostre Regioni si pensa già a una graduale ripartenza delle attività, dal resto del mondo arrivano gli echi di come le persone stanno vivendo la pandemia in ogni Stato. Perché se una cosa è certa è che il Coronavirus ha unito tutti, al di là dei confini e delle polemiche sul fondo salva stati e l’ostracismo dei Paesi nordici nei confronti dell’Italia. Ne parliamo su Confidenze nel servizio Qui la viviamo così di Elena Filini, dove sei italiane trapiantate all’estero ci raccontano come vivono la loro quarantena nelle rispettive città.
Penso che in queste settimane molti di voi si siano sentiti per telefono o con WhatsApp con amici e parenti sparsi in giro per il mondo e abbia potuto fare i suoi confronti. Io nelle prime settimane del contagio per esempio mi sono scambiata spesso delle mail con un amico di famiglia che vive da anni in Florida; preoccupato per le notizie che arrivavano dall’Italia mi ha scritto una mail di saluti, alla quale ne sono susseguite altre con un aggiornarci continuo sulle rispettive situazioni.
Se devo essere sincera all’inizio mi sono fatta prendere un po’ dentro alla gara del “ il mio Paese è più figo del tuo…”. di descrivergli l’efficienza lombarda, l’ospedale della Fiera allestito in meno di 15 giorni, i 10 milioni di euro donati da Berlusconi, insomma mi aggrappavo alle poche certezze che avevo per dargli l’immagine di un Paese diverso da quello che vedeva dalle tristi immagini dei camion dell’esercito di Bergamo. E intanto avvertivo dalle sue parole la stessa iniziale superficialità con cui anche qui in Italia era stato accolto il Covid, niente più di una banale influenza.
Poi anche gli Stati Uniti sono saliti in cima alla classifica per numero di morti e io non ho avuto più il coraggio di infierire. Il giorno in cui mi ha scritto che la loro agenzia delle entrate (IRS) nel giro di due settimane avrebbe accreditato sul conto di ogni cittadino della Florida in età da lavoro 1.200 dollari più 500 dollari per ogni figlio a carico, ho gettato la spugna, pensando ancora ai nostri 600 euro vaganti nell’aria.
Ogni Paese ha i suoi problemi (nell’efficientissima Londra, leggo dal nostro servizio, scarseggia la carta igienica) e al di là delle singole rivalità tra Paesi nel gestire l’emergenza — la sera davanti al televisore è facile indulgere in battute tipo «hai visto Boris Johnson e la sua immunità di gregge? Guarda che fine hanno fatto gli inglesi in lockdown per altre tre settimane…» O ancora: «E la Svezia che si vantava tanto di non avere casi di Coronavirus, guarda come sono messi ora? » — tutti noi percepiamo un afflato che unisce le persone e che per una volta non ha confini, perché di pandemia si tratta, (pan in greco significa tutto e demos popolo) qualcosa di simile a una tragedia collettiva.
Così quando la scorsa settimana la mia signora delle pulizie originaria dell’Ecuador è entrata in casa piangendo per le notizie che arrivavano dal suo Paese di morti gettati nelle strade e ospedali privi di qualsiasi dispositivo di protezione, persino dei più banali disinfettanti, ho provato un senso di compassione, nella forma più nobile del termine, per quanto sta succedendo indistintamente e ovunque. Ricorderemo il Coronavirus forse come l’effetto peggiore della globalizzazione. Da milanese, per me l’immagine comunque più commovente resta quella dell’arcivescovo Delpini che prega la Madonnina in cima al Duomo di Milano.
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