I colpi di martellate inferti alle statue del museo di Mosul, in Iraq, alcune risalenti anche al VII secolo A.C.) sono un pugno nello stomaco, seppure mai quanto i video delle esecuzioni degli ostaggi lungo le spiagge libiche. Qui non c’è religione che tenga, non c’è motivazione ideologica che possa spiegare un gesto così barbaro, che distrugge in un momento secoli di storia, la culla di tutte le civiltà, quella mesopotamica, e l’arte, espressione più nobile dell’uomo, annientata dallo scempio compiuto in nome del Profeta. Oggetti profani da cancellare, spiegano nel video i miliziani dello Stato islamico mentre riprendono il massacro. Già perché mai come in questa guerra l’Occidente tanto combattuto è presente involontariamente in ogni momento.
È la tecnologia prodotta dalla civiltà occidentale a consentire di diffondere i terribili video delle esecuzioni degli ostaggi dell’Isis, così come occidentali sono le scuole frequentate dal boia Jahidi John (cresciuto a Londra e laureatosi all’Università di Westminster) e occidentali erano gli esecutori della strage di Charlie Hebdo (francesi di adozione). Anche i giovani seguaci dell’Isis che appaiono nelle interviste delle nostre televisioni, quando non sono bardati per il macabro rituale delle esecuzioni, sembrano normali ragazzi della società globalizzata.
Il colpo inferto ieri al Museo iracheno di Mosul è un danno incalcolabile a tutta l’umanità e ci fa arretrare indietro di secoli, ci fa sentire tutti meno umani.
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