È passato un anno, proprio lo scorso 8 marzo l’Italia entrava in lockdown e non c’era quasi tempo per ricordarsi della Festa della donna. Che cosa è successo nell’annus horribilis del 2020?
“Women in leadership: achieving an equal future in a Covid-19 World” è il tema scelto quest’anno dalle Nazioni Unite per celebrare la Giornata Internazionale della donna. L’impatto dei virus sulla popolazione femminile è stato fortissimo e ha reso ancora più complesso il quadro di disparità economiche e sociali: non solo le donne guadagnano meno, risparmiano meno e ottengono lavori che garantiscono meno sicurezza e stabilità, ma sono anche più stressate da nuove priorità familiari. Un dato su tutti lo ha fornito l’Istat nei giorni scorsi: da febbraio a dicembre 2020 l’Italia ha perso 158 mila occupati tra gli uomini e 268 mila tra le donne, facendo tornare il tasso di occupazione femminile al 48%, praticamente indietro di 4 anni. Dei 400.000 posti di lavoro complessivi persi in Italia il 70% erano occupati da donne. Sono i cosiddetti secondi stipendi, (quando ce n’è un primo) più facilmente sacrificabili. Il fondo l’abbiamo toccato nel mese di dicembre 2020 quando sui 101.000 posti di lavoro persi 99.000 sono stati di donne.
Eppure proprio loro, le donne, ricorda l’ONU, sono tutt’ora in prima linea nella crisi del Covid-19, come operatori sanitari, caregiver, innovatrici, ma anche più semplicemente come, madri, figlie, nonne, donne che non si sono mai fermate, che si sono adattate a seguire i figli piccoli in didattica a distanza, che hanno continuato il loro lavoro in smart working, hanno cucinato, accudito i genitori anziani, cercando di conciliare ancora una volta tutte queste emergenze.
E in più si sono distinte nello studio del Covid-19. Proprio durante la prima ondata dell’epidemia le donne hanno giocato un ruolo importante, prima nell’isolare il virus, poi nell’analisi delle cure per i contagiati e infine nella scoperta del vaccino. Basti pensare alla dottoressa Maria Rosaria Capobianchi, direttrice del laboratorio di Virologia dell’ospedale Spallanzani di Roma, che per prima isolò il Covid-19 dai due pazienti cinesi proprio un anno fa o ad Annalisa Manara, la dottoressa dell’ospedale di Codogno che scoprì il paziente 1 e ancora Alessia Bonari, l’infermiera simbolo della lotta al Covid che dopo 15 ore di lavoro si fece un selfie con i segni lasciati sul volto dalla mascherina lanciando in rete un’immagine che diventò subito virale.
Sono queste le donne che ci piace ricordare per questo 8 marzo, una data infarcita di retorica, di buoni propositi ogni anno disattesi, ma fortunatamente confermata da fatti come questi.
Se è vero che in quest’ultimo anno le donne hanno perso posti di lavoro e autonomia, è anche vero che abbiamo visto emergere tante figure femminili di rilievo nel campo della scienza: da Ilaria Capua, virologa e direttrice dell’UF One Health Center, all’immunologa Antonella Viola dell’Università di Padova, per citare i volti più noti.
Eppure il cosiddetto gender gap (la disparità di genere) resta e i dati purtroppo lo confermano: stando al Global Gender Gap Report del World Economic Forum, l’Italia si colloca al 17esimo posto tra le 20 nazioni dell’Europa Occidentale per disparità salariale tra uomo e donna.
Sempre l’ONU nel suo report rivela che solo tre Paesi al mondo hanno il 50% di donne in Parlamento. E ben 119 nazioni non hanno mai avuto un capo di Stato donna o una donna alla guida del governo. Tanto che l’ONU prevede si possa parlare di parità di genere in parlamento non prima del 2063.
Ma anche negli studi, spesso c’è una disparità di genere: AlmaLaurea nella sua annuale analisi dello stato occupazionale, ha fatto un focus specifico sul gender gap diffuso proprio in occasione dell’8 marzo, arrivando a questa conclusione: le ragazze studiano di più, hanno più interessi e voti più alti, ma nel lavoro hanno retribuzioni inferiori e sono penalizzate se hanno figli.
Il 58% delle ragazze si laurea contro il 41% degli uomini (a parità di corso di studi); il 63% ha svolto tirocini curricolari contro il 54% degli uomini. Ma se si guarda la situazione lavorativa a cinque anni dal titolo conseguito, si vede che in presenza di figli il tasso di occupazione delle donne scende al 70% contro il 91% di quello maschile. E le retribuzioni sono sempre sbilanciate a favore degli uomini. Persino nella scelta degli studi il gender gap è evidente: spesso le ragazze preferiscono facoltà umanistiche a quelle scientifiche, considerate appannaggio prevalentemente maschile. Solo in questi ultimi anni si è cominciato a promuovere nelle scuole lo studio delle STEM, ovvero le discipline scientifiche, tecnologiche e matematiche, anche per le ragazze.
Nel piano operativo della Strategia Nazionale per le competenze digitali del Ministro per l’Innovazione Tecnologica (pre-governo Draghi) per esempio c’era l’obiettivo di quadruplicare entro il 2025 il numero della laureate in discipline scientifiche e tecnologiche.
Fondazione Mondo Digitale poi propone il progetto Coding Girls, un modello di formazione e orientamento allo studio nei settori della scienza e tecnologia che offre a 15.000 giovani donne l’opportunità di esprimere il proprio potenziale superando stereotipi e barriere, soprattutto in tempo di emergenza sanitaria.
Insomma le iniziative non mancano, e allora c’è solo da sperare che questa Pandemia non porti via con sé anche anni di lotte e traguardi raggiunti e che quella parola così tante volte abusata: resilienza mostri invece tutto il valore della sua desinenza al femminile.
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