Giornata Mondiale della Sindrome di Down: la storia di Gabriele, campione di nuoto

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Pubblichiamo la storia di Gabriele Di Bello, il ragazzo down che ha partecipato agli Special Olympics di nuoto e che ci racconta i suoi sogni

Da piccolo certi insegnanti chiedevano ai miei genitori:  «Cosa pretendete da vostro figlio?». Ma la famiglia mi ha sempre sostenuto e io sapevo cosa volevo. Crescendo, ho avuto molto di più

 

Storia vera di Gabriele Di Bello raccolta da Rossana Campisi

Quasi è una parola bellissima. Somiglia a quel pezzo di cartoncino che mettiamo sotto al piede di un tavolo che traballa quando ceniamo e c’è la candela, il vino ma anche un gomito che si appoggia e rovina tutto. La cena è quasi perfetta: non sarà stabile come vorremmo ma nel frattempo mangiamo e ci dimentichiamo di tutto. La gente che mi vuol bene per esempio è quella che ha dimenticato il mio “quasi”, ovvero la mia sindrome di Down. Ho 24 anni e vivo a Tivoli. Per la mia famiglia è sempre stato più che normale amarmi con la certezza che tutto sarebbe stato perfetto, senza un “quasi” fatto di burocrazie che sfiancano, indifferenze che appesantiscono. Senza gli ostacoli che abbiamo superato insieme, io mamma, papà, mio fratello Simone e il mio orgoglio.

Dei miei anni delle superiori per esempio mi ricordo tre cose. La prima è l’immagine dei miei insegnanti che il primo anno non mi facevano scrivere nulla sui quaderni. Ai miei genitori che chiedevano spiegazioni dicevano: «Cosa pretendete da vostro figlio?», negli anni successivi hanno per fortuna cambiato il tiro. La seconda è un numero di telefono, l’unico che mi hanno dato i compagni, il numero che poi scoprii essere sbagliato. La terza è il mio “no” all’invito della classe per la gita di cinque giorni a Barcellona. Senza di me non avevano il numero sufficiente per partire, io adoro viaggiare ma quella era l’occasione perfetta per prendermi la rivincita dopo cinque anni di indifferenza.

Per la prima volta raccontai ai miei genitori la sensazione di rifiuto che sentivo appiccicata addosso ogni giorno, quel mio gesto non la stava cancellando, ma era il primo che avesse finalmente un’importanza per loro. Il mio “no” ha cambiato ben poco per me, ma per fortuna in quegli anni ero diventato anche altro. Ovvero: un nuotatore, un giocatore di bowling e un ballerino di hip hop: devo tutto a Special Olympics, un’organizzazione che all’inizio ho rifiutato, non mi piaceva sapere che c’erano attività solo per persone disabili. Col tempo, invece è diventata la mia seconda famiglia: è qui che ho trovato gli amici, è qui che ho realizzato quanto lo sport se ne freghi di tutti i “quasi” al punto da far cambiare le regole. Da qualche anno Special Olympics ha deciso di far gareggiare tutti insieme senza più separare i ragazzi disabili dagli altri.

Così, sono stato ai Mondiali di nuoto di Abu Dhabi e sono felice. È una cosa mia, una di quelle cose serie che in genere non amo commentare in giro perché non hanno bisogno di essere raccontate. Si fanno, possibilmente al meglio, e si è felici. Essere qui è il mio traguardo, ma è anche la conferma che per me andare in acqua è una grande emozione dove puoi vincere e puoi perdere, puoi fare tutto. Perché sei tu e il respiro.

È quello che mi è successo anche la prima volta che sono finito davanti a una cinepresa: ero un attore di Hotel 6 stelle (la docufiction andata in onda su Rai 3 nel 2014, ndr). Mi sentivo libero come quando nuoto, così libero che mi sono innamorato. Nella prima puntata ho conosciuto Alice, nella seconda ci siamo fidanzati: la docufiction è un reality che si è trasformata in realtà. Sì, io e Alice stiamo insieme da allora, a lei dico tutto, e ci vediamo quando possiamo. Adesso ci frequentiamo di più perché siamo stati coinvolti di nuovo in un set: abbiamo girato Ognuno è perfetto, una fiction che è andata in onda su Rai 1 a ottobre 2019 e spero che ci porti fortuna. Cosa sogniamo? Con lei parlo di convivenza e matrimonio. Vorrei anche dei figli, so che è quasi impossibile, ma chissà. Certo, lascio sempre socchiusa una possibilità, me l’ha insegnato mia mamma: per realizzarla c’è sempre tempo. Al massimo la sostituisci con un’altra che arriva inaspettata. So anche di avere avuto fortuna, per la meravigliosa famiglia che ho accanto: lei e le mie passioni mi hanno reso migliore. Mi sono innamorato per esempio delle storie sul re Artù e sui cavalieri della Tavola Rotonda, di come recita Johnny Depp in La fabbrica di cioccolato, di Daniele Silvestri quando canta Argento vivo perché io so che quella canzone parla anche di me quando gli altri mi mettevano in disparte.

Mi sento fortunato perché ho capito cosa volevo fare da grande fin dall’età di sette anni. Con la mia famiglia ci eravamo fermati in un ristorante in Umbria. Avevo chiesto se avevano piatti per celiaci visto che lo sono, avrei preso anche un pollo alla piastra, ma ci hanno invitato a lasciare il locale: non se la sono sentiti di farmi rischiare. È lì che ho deciso che da grande avrei aperto un ristorante con menu adatti ai celiaci e a chi ha altre intolleranze. Mi sono diplomato all’istituto alberghiero con un 80/100 che mi avrebbe permesso di continuare gli studi universitari, ma non ho mai cambiato idea. Attualmente lavoro al mattino in un ristorante, un giorno però aprirò il mio e preparerò i miei risotti. Il pezzo forte sarà il risotto con funghi e salsiccia dove gli aromi che uso sono quelli che lo rendono speciale.

Aromi inaspettati, anche questi. Io li chiamo imprevisti simpatici. Come quello dell’esame di maturità. Arrivo e mi chiedono cosa vorrei fare da grande e perché ho scelto già il nome del mio locale. Allora racconto a tutti la storia che ho sentito in un film, di una madre pentita di non aver saputo accettare il figlio con la sindrome di Down, affidandone la crescita al padre.

Se uno parte dall’America per andare in Italia a vedere il Colosseo di Roma, le calli di Venezia e i musei di Firenze e per uno sbaglio del pilota si ritrova in Olanda, è normale arrabbiarsi, chiedere spiegazioni, restare in aeroporto in attesa di un altro volo. Nel fare tutto ciò, però ci stiamo perdendo qualcosa: abbiamo perso il tempo per goderci le bellezze dell’Olanda. Quelle inaspettate. Tra queste ci sono i tulipani. E io sono un tulipano. «Sì, i fiori mi piacciono», ho risposto quella volta ai professori all’esame. «Il mio ristorante si chiamerà Il tulipano perché questa storia non l’ho dimenticata». Io sono un tulipano, siamo in tanti a dire il vero, ma io mi chiamo Gabriele. ●

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Articolo pubblicato su Confidenze n. 13 2019

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