A chi non è successo da piccoli di prendere uno schiaffo? Quel gesto così sopra le righe ce lo ricordiamo ancora a distanza di anni, sappiamo ricostruirne le circostanze, descriverne la ragioni e le nostre reazioni.
Io per esempio, ho stampato nella memoria con grande nitidezza l’attimo in cui mia mamma a otto anni mi mollò una sberla (forse l’unica) perché in vacanza, una sera, io e mia sorella tornammo a mezzanotte dopo un’epica giocata a nascondino. Con gli altri bambini c’eravamo nascosti così bene che i genitori non riuscivano a trovarci più…
Oggi è difficile che un genitore a uno scatto di rabbia alzi le mani sul proprio figlio: le distanze tra generazioni si sono accorciate, e specie nell’età dell’adolescenza, quando i conflitti diventano più aspri, subire l’affronto di uno schiaffo (anche se magari meritato) equivale a vivere un sopruso, l’imposizione di un’autorità che non trova altra strada per farsi rispettare.
È quanto succede alla protagonista della storia vera “Lo schiaffo”, raccolta da Jolanda Pergreffi e pubblicata su Confidenze. Una madre alle prese con una figlia adolescente che scappa di casa dopo essersi presa uno schiaffo.
Vi invito a leggere la storia e il commento di Paolo Crepet, psichiatra, che ci insegna una grande verità: alla base di ogni buona educazione c’è la comprensione.
E voi vi ricordate ancora il primo schiaffo ricevuto dai vostri genitori?
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