Mio fratello Elias

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Per il giorno della Memoria che ricorre oggi 27 gennaio pubblichiamo la storia vera Mio fratello Elias di Tiziana Pasetti, che trovate su Confidenze di questa settimana 

Sono tedesco, ma vivo in Italia dal 1947. Faccio parte del popolo assassino che ha devastato il mondo. Eppure il mio amico più caro era un ebreo e, se all’epoca non capivo cosa stava succedendo, ora so che anche in piena follia l’umanità può salvarci 

storia vera di Hermann L. raccolta da Tiziana Pasetti

 

Elias e io siamo nati lo stesso giorno, il 15 marzo del 1931. Ci siamo conosciuti proprio in quell’occasione, le nostre madri avevano scelto di non partorire in casa come si usava allora. Erano donne di città, la mia era a capo di una piccola ma importante fabbrica di tessuti insieme a mio padre e la madre di Elias insegnava matematica nel liceo storico di Brema. Elias abitava ad appena un centinaio di metri da casa mia, le nostre mamme avevano stretto amicizia durante i sei giorni di degenza e così noi due abbiamo condiviso le piccole culle, i pavimenti per le prime gattonate, i primi passi fatti reggendoci l’uno all’altro. Abbiamo condiviso i litigi, ci siamo rubati merende e soldatini di piombo e costruzioni di legno e ancora conservo un vagoncino di un treno meraviglioso che suo padre, ingegnere, gli aveva regalato: la tentazione era stata troppo forte e quel piccolo pezzo lo avevo rubato. Elias e io non lo sapevamo che proprio nell’anno in cui eravamo nati per il nostro Paese stava cominciando a scendere un’ombra che avrebbe presto oscurato e soffocato la vita e la storia della Germania e del mondo. Noi eravamo bambini, eravamo amici. Fratelli. E anche se cose orrende stavano germinando a nostra insaputa con velocità sempre maggiore noi amavamo  passeggiare mano nella mano lungo il fiume Weser e a volte salire su battello e osservare le case e le cose che lente scivolavano via. A pranzo non tornavamo mai a casa, c’era una locanda di proprietà di una zia di Elias, e lì ci raggiungevano i nostri papà. Sulla tovaglia bianca e rossa trovavamo ad aspettarci il nostro piatto preferito, il Bremen knipp, una salsiccia non piccante, morbidissima, servita con pancetta, cipolle, composta di mele e patatine fritte. La mangiavamo di gusto, accompagnando ogni boccone con grandi pezzi di pretzel caldo e la schiuma della birra che leccavamo dalle dita intinte nei boccali colmi dei nostri genitori. Tutta quella meraviglia non aveva nulla di speciale; era la nostra normalità, amatissima, scontata.

La casa di Elias era molto più grande e più bella della mia. Ricordo i sabati danzanti nel grande salone. Due specchi enormi, posti ai lati opposti della stanza, raddoppiavano la superficie e rimandavano all’infinito il luccichio dei cristalli che pendevano dai lampadari fatti arrivare da Murano. Ballavano i nostri genitori, ballavano le coppie di amici che si univano a loro. Io ed Elias ci nascondevamo sotto le tovaglie sontuose e da lì osservavamo quel circo umano: le caviglie delle donne rese ancora più sottili dalle calze di seta, le pieghe perfette dei calzoni indossati dagli uomini che cadevano con un piccolo angolo sulle scarpe sapientemente tirate a lucido per l’occasione. Quasi sempre restavo a dormire da Elias. Il giorno dopo i miei genitori tornavano a prendermi, sempre in compagnia di un vassoio di piccole paste e delicati cioccolatini che venivano dalla Svizzera e che la madre di Elias, Ruth, adorava.

Elias e io avevamo da poco compiuto sette anni, quando le cose cominciarono a cambiare. La musica, nei sabati danzanti, era più rumorosa, le luci meno forti, la porta chiusa a tripla mandata. Le donne non ridevano e parlottavano in cucina. Gli uomini sembravano tesi, fumavano senza sosta. E i miei genitori non mi lasciavano più dormire dal mio amico. Noi non capivamo perché. Ci arrabbiavamo, prendevamo a calci le gambe dei nostri padri che cercavano di separarci. L’abbraccio di due bambini di sette anni è forte nell’anima, ma debole nel corpo: alla fine, a malincuore, con gli occhi gonfi di lacrime e nessuna risposta, dovevamo arrenderci.

Una mattina, era freddo e fuori nevicava, ero rimasto a casa con la febbre alta. Con me era rimasto mio padre, chiuso nella sua stanza a lavorare. Mi alzai con l’intenzione di andare in cucina a bere un po’ d’acqua fresca. Passai davanti allo studio di mio padre e mi accorsi che non era solo. Con lui c’era Moses, il padre di Elias. Parlavano in modo concitato. «Quando?» continuava a ripetere mio padre.

«Tra due settimane, la situazione precipiterà in fretta, poi non sarà più possibile partire, Robert, per noi si sta mettendo male» rispose.

«Non fatelo, vedrai che le cose si sistemeranno, non siamo dei barbari, Hitler diventerà ragionevole e se non lo farà da solo ci penserà l’Inghilterra a rimetterlo in riga» provò a insistere mio padre.

«Sei un illuso, Robert. E fossi in te valuterei l’opportunità di partire con noi, ricominciare in un Paese che non abbia questa furia folle e omicida nelle vene. Non saremo solo noi ebrei a soffrire, quella gente sterminerà anche voi, se non fisicamente nell’anima», Moses aveva alzato il tono della voce.

Mio padre forse gli fece segno di parlare più piano, perché poi io non capii più quello che si stavano dicendo. Tornai a letto, non mi reggevo in piedi. La febbre era salita.

Tutto avvenne in modo veloce, agitato. Lungo le strade di Brema si vedeva tantissima polizia, le persone parlavano di un posto chiamato Polonia, io non capivo, usavano parole come “attacco”, “sterminio”, “invasione”. Però ridevano, si davano pacche sulla schiena. E alcuni avevano cominciato ad addobbarsi i vestiti e i cappotti con delle stelle gialle, Elias ce l’aveva, la volevo anch’io. Però mia madre disse che non era possibile. Allora provai a chiederla a Elias. Disse no anche lui. E quando quella mattina si presentarono alla porta di casa io gliela chiesi di nuovo.

«Non sono affari tuoi» mi disse. Teneva lo sguardo basso.

«Vieni a giocare», gli presi una mano ma lui la tirò via. Mia madre si inginocchiò: «Elias adesso deve partire. Prenderà una grande nave e andrà in America, dobbiamo salutarlo. Ma ci rivedremo presto, tutti».

 

Io non capivo, mi tornarono però in mente le parole che avevo sentito quando avevo la febbre. «Per colpa di Hitler? Ma papà ha detto che ci penseranno gli inglesi!» dissi.

Elias scoppiò a piangere: «Voi ci volete male, non possiamo più entrare nei negozi e ci ucciderete se non scappiamo».

«Non è vero!», gridai. Allora mi guardò e prima di andar via fece un gesto che resterà nei miei occhi fino al mio ultimo respiro. Si strappò la stella di panno lenci giallo e me la lanciò addosso. Il 15 marzo sarà il mio compleanno, compirò 89 anni. Vivo in Italia dal 1947, dopo aver patito la guerra, la più tremenda delle condizioni possibili. Ho assistito alla distruzione del mondo, del mio Paese, della mia città, della mia casa. Ho abitato per gli ultimi anni del conflitto in una cantina piena di topi e mangiato patate crude, gelate. Sono tedesco, facevo parte del popolo assassino, appartenevo agli sbagliati. I miei genitori non hanno mai condiviso le idee di Hitler, mai. Ma per il popolo tedesco che ha patito e sofferto non c’è stata compassione. La mia famiglia è stata fortunata, il padre di Elias non ci ha mai abbandonati. È stato grazie a lui se siamo sopravvissuti. Noi, tedeschi, siamo stati salvati da una famiglia ebrea. Elias è morto pochi mesi fa. Sarà il mio primo compleanno senza il mio “nemico”, senza mio fratello. Nella tasca destra dei pantaloni porto sempre il vagoncino del treno che gli rubai. «Guarda che ti avevo visto», mi confidò quando, molti anni dopo, ammisi il furto. La sua stella la porto nel taschino della giacca, a sinistra, sul mio cuore. ●

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