Molti pensano che io sia astemia perché al ristorante non degno della minima attenzione la lista dei vini. Quando ceno a casa, al mio posto non metto nemmeno il bicchiere dedicato. E da ospite, uso solo quello dell’acqua.
In realtà, non ho nulla contro l’alcol, anzi. Se mi proponete uno Spritz lo accetto molto ma molto volentieri, a qualunque ora del giorno o della notte. Con la pizza ogni tanto non mi dispiace una bella birretta. Se c’è l’occasione, apprezzo un liquorino (purché dolcissimo) insieme al dessert.
La leggenda dell’Albie astemia, insomma, è nata solo perché non bevo vino. E siccome in compagnia è difficile sedersi a tavola con davanti una bottiglia di sambuca, ecco spiegato l’inganno.
Un inganno che è la gioia degli uomini che mi invitano a cena. Pur mangiando quantità di cibo industriali, infatti, non permetto mai al conto di lievitare per sorsi d’annata.
Invece, quando comunico in generale la mia avversione nei confronti del nettare degli dei, leggo spesso sgomento negli occhi di chi mi ascolta.
Di certo rimarrebbero strabiliate le intervistate nell’articolo Passione sommelier pubblicato su Confidenze in edicola adesso: donne che per motivi diversi hanno frequentato un corso per diventare enologhe professioniste.
Con un po’ di fantasia, ho provato a immaginarmi nei loro panni e ho subito capito che quel mestiere farebbe di me una disoccupata senza speranza. Anche perché se mi iscrivessi a una scuola, mi caccerebbero alla prima lezione: oltre a non amarli, di vini non capisco un fico secco.
E’ vero, però, che non avere neanche un litro in casa significa non poter invitare nessuno. Quindi, al supermercato mi metto sempre di buzzo buono e mi piazzo davanti al bancone con la seria intenzione di superare lo scoglio “non so comprare il vino”. Ma ogni volta finisce che, in preda al panico, telefono alle amiche e chiedo a loro, in diretta, i consigli per gli acquisti.
Peccato che poi, una volta a casa, non ricordi minimamente come abbinare cibi e bottiglie. Allora mi faccio furba, snocciolo il menu, lascio agli ospiti la scelta sull’accompagnamento giusto. E mentre loro spulciano nella mia “cantina”, io incrocio le dita sperando che trovino il beveraggio adatto.
D’altronde, che venire da me non sia come aver prenotato nella più esclusiva enoteca non è un segreto per nessuno. Tant’è che chi mi frequenta sa benissimo che nel mio gargarozzo scende solo coca zero. Che considero il top del top con qualunque cosa ci sia nel piatto, dentro un panino, spalmato su una tartina, raccolto in una ciotola o dimenticato nella pentola.
Attenzione, però: non parlo della coca tradizionale, di quella dolcificata con la stevia o la versione senza caffeina. No, il mio champagne millesimato è proprio la zero. Che riconosco immediatamente, anche a occhi bendati. Esattamente come se avessi seguito un ambito corso per sommelier. Magari un po’ particolare, ma lo stesso da diploma.
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