Sono un’artista che si esprime in modo personale. Ma il percorso per arrivare fin qui è stato molto doloroso. Mi è mancata una vera famiglia e i nodi, con i quali lavoro creativamente, rappresentano i legami d’amore che mi sono mancati
Storia vera di Isabella Corda raccolta da Roberta Giudetti
Non so se quella notte in cui mia madre fece l’amore per la prima volta nella sua vita c’erano le stelle e l’erba profumava d’estate. Non so neanche se fosse davvero amore o se avesse deciso semplicemente di cedere alle lusinghe di quell’uomo così affascinante perché lui era stato il primo a mostrare un certo interesse nei suoi confronti. Di sicuro so che nove mesi dopo sono nata io e che lei non mi aveva cercata. Soprattutto dopo aver saputo che quell’uomo, di cui poi si era innamorata, era sposato, ed aveva tre figli legittimi.
La mia vita, quindi, è stata segnata prima che venissi al mondo perché un bimbo lo sente da subito se è stato desiderato o no. Mi piace comunque credere che, quando ero nella pancia di mia madre, lei mi aspettasse pensando a me come un dono e non come una disgrazia.
Lei, una donna che aveva avuto il coraggio di andarsene tutta sola dalla Sicilia ed era arrivata a Roma a lavorare come sarta, carica di aspettative e speranze. Non aveva mai avuto un amore, non un ragazzo che l’avesse guardata con un briciolo di desiderio. Com’era stato facile innamorarsi di mio padre al primo sguardo e credere che sarebbe stato per sempre. E lui lo avrebbe voluto, ma mia madre aveva preferito tirarsi indietro.
Poi sono nata io. Ero una bella bimba, lo dicevano tutti, sempre sorridente, mia madre era severa ma mi voleva bene, però avrei voluto a fianco il mio papà. Ma la storia fra mia madre e mio padre non aveva avuto nessuna possibilità di trovare un lieto fine. Ho pochissimi ricordi di papà, di quelle rare volte che passava a trovarci.
Nonostante non nutrisse speranze, qualche anno più tardi, mia madre restò nuovamente incinta di lui e così nacque mio fratello Riccardo. A questo punto mamma decise, per proteggerci, a detta sua, di rompere definitivamente con mio padre e di crescerci completamente da sola. Avevo sempre percepito come un muro fra me e lei, sin da piccola, ma quando nacque Riccardo questo muro divenne più spesso. Lui era il figlio che in fondo aveva desiderato, io ero quella capitata. Lui sarebbe diventato l’uomo di casa, l’avrebbe aiutata un giorno, mentre io probabilmente avrei portato solo problemi. Vedevo come guardava Ricky e questo mi faceva soffrire. Non bastavano i bambini a scuola che mi bullizzavano perché non avevo una famiglia come le altre, c’era lei che mi sgridava in continuazione, che mi metteva in punizione per cose che non avevo fatto. Lei che mi amava in un modo tutto suo che non capivo anche se io facevo di tutto per essere una brava bambina. Più lei si attaccava a Riccardo, più io mi allontanavo da mio fratello.
A un certo punto, sempre per il mio bene, mi mandò in un collegio gestito da suore, un incubo per me. Mi sentivo sempre fuori posto e inadeguata, sia in collegio che quando tornavo a casa. Ogni volta che potevo, scappavo, solo che lei non si inteneriva mai di fronte alle mie lacrime e alle mie preghiere, mi riportava sempre indietro.
«Perché Riccardo può vivere con te mentre io devo stare in quell’inferno?», le chiedevo disperata ma non ottenevo mai risposta. Iniziai a rifugiarmi nel cibo, mi ci ingozzavo proprio. Come da manuale diventai una ragazzina irrisolta, con problemi di sovrappeso e autostima.
Ricordo bene però il giorno in cui mamma venne a riprendermi. Mi portò delle scarpette nuove di vernice, stupende, e mi disse: «Prepara le tue cose, oggi torni a casa con me». Ero così felice e così incredula. Forse mia madre sentiva la mia mancanza, non poteva essere altrimenti. Ma non era così. Me ne resi conto a casa, quando ogni occasione fu buona per sgridarmi e sfogarsi su di me. Ero una bambina difficile da gestire, sarei diventata sicuramente una ragazza terribile secondo le suore, soprattutto ora che dovevo iniziare le scuole medie. Per questo mi avevano rispedita a casa. Non era stata una decisione di mia madre.
Infatti le medie furono un nuovo capitolo da incubo per me. Tornavo a casa ogni giorno con i pugni stretti nelle tasche, piena di graffi e lividi, con tutta la mia rabbia nello stomaco che mi faceva gridare in silenzio. E mia madre mi diceva: «Impara a difenderti! Impara a combattere!». Così, un pomeriggio, nel cortile della scuola, affrontai per la prima volta chi mi prendeva in giro, lo presi a schiaffi e a pugni fino a farlo fuggire in lacrime. Quel giorno presi consapevolezza della mia forza, del fatto che ce la potessi fare e passai dall’altra parte della barricata. Ero io ora che mettevo paura. «State lontano da Isa, quella è matta! Quella mena!», bisbigliavano i ragazzi passandomi accanto, ed io li fissavo con aria di sfida. È iniziato allora il cambiamento.
Ed è stato allora che ho iniziato a credere che le brave ragazze non vanno da nessuna parte, che è meglio essere una cattiva ragazza. È stato allora che ho capito che se per farmi rispettare dovevo sembrare matta, lo sarei stata.
A 14 anni, ecco un altro scossone. Eravamo stati sfrattati, così fummo costretti a trasferirci in campagna, vicino al litorale sud di Roma. Ero sempre più insofferente, più ribelle. Scappavo in continuazione da amici e compagnie a volte poco raccomandabili, incapace di sopportare i continui scontri con mia madre. In casa cercavo di stare il meno possibile, mia madre e mio fratello per me erano due estranei.
Se ripenso a questi anni della mia vita, quello che mi fa più male, è non aver capito prima che io e Riccardo avremmo potuto essere uniti, complici. Ma mia madre, con il suo atteggiamento, mi aveva spinto se non a odiarlo, a considerarlo quasi un nemico. Io e Riccardo abbiamo vissuto in mondi separati, incapaci di comunicare, fino ai suoi 17 anni.
Quando divenne un adolescente, qualcosa cambiò. Non ricordo esattamente quando accadde, ma una sera ci ritrovammo io e lui a prendere in giro nostra madre. Una battuta ed eravamo scoppiati a ridere tutti e due, e per la prima volta lo avevo sentito vicino, simile. Così, di tanto in tanto, avevamo iniziato ad uscire insieme. Lo portavo a ballare con me e tutte le mie amiche mi dicevano che ero fortunata ad avere un fratello così simpatico e bello come il sole. Iniziai a crederlo anch’io. Iniziai a sentire in fondo al cuore un profondo attaccamento verso di lui e voglia di proteggerlo. Per qualche misterioso motivo, ci volevamo bene nonostante nostra madre. Anche se lei continuava a preferire lui, non me ne fregava niente, perché sì, Riccardo era mio fratello e finalmente capivo che potevamo essere amici. Non era colpa sua se mia madre era così. Per assurdo, penso sempre che proprio il fatto che Riccardo fosse sempre stato il figlio prediletto, ha segnato il suo destino.
La sera che Ricky ebbe l’incidente, io non c’ero. Ricordo bene però il suo entusiasmo perché mamma gli aveva concesso di usare la sua macchina, di andare a Roma e di restare fuori a dormire. Ero certa che si sarebbe divertito. Che sarebbe tornato elettrizzato dopo la sua prima avventura nella capitale. E che la sera ci saremmo ritrovati a parlare fitto fitto per ore, sdraiati sul divano con un sacchetto di patatine e una birra, e lui mi avrebbe raccontato della sua nuova ragazza, dei suoi amici, di un concerto o di una festa. Ci eravamo sentiti al telefono, io avevo 22 anni e stavo vivendo la mia prima grande storia d’amore. «Divertiti, ma sta attento Ricky», mi ero raccomandata. Ero felice per lui, stava diventando un uomo.
Mio fratello avrebbe compiuto 19 anni da lì a poco quando morì in quel tragico incidente dove perse il controllo dell’auto tornando a casa.
Quando ricevetti la notizia, il mondo si fermò. Riccardo non c’era più e con lui svaniva l’unico motivo per fermarmi in quella casa. Era durato così poco l’amore che ero riuscita a dare a mio fratello e che avevo ricevuto da lui. Mia madre ovviamente ne era rimasta devastata. Le sue urla di dolore riempivano ogni angolo della casa. Leggevo nei suoi occhi tutta la sua disperazione. La sua incapacità di accettare che ora lei aveva solo me, la figlia ribelle, la pecora nera. Sentivo aleggiare nell’aria fra noi la domanda silente: «Perché lui?».
Con la morte di mio fratello, qualcosa tra me e mia madre si spezzò definitivamente. Se prima avevo un briciolo di voglia di lottare, di farmi capire da lei, ora era tutto finito. Mi sentivo invisibile, come se fossi il contorno sbiadito della persona che avrei voluto essere. La vita continuava a ferirmi, era davvero dura trovare la forza per andare avanti. Non avevo più alcun motivo per restare e infatti me ne andai a vivere a Roma.
Trovai una stanza in affitto, prima lavoretti saltuari, e poi, dopo aver frequentato un corso, iniziai a lavorare come agente immobiliare, così raggiunsi una certa stabilità economica. Presi la patente, iniziai ad avere degli amici, dei ragazzi, eppure non mi sentivo mai completa. Mi mancava sempre qualcosa. Ci misi anni a comprendere che forse quello che mi mancava era conoscere mio padre. Sapevo di avere anche dei fratellastri, forse incontrarli mi avrebbe fatto sentire meno la mancanza di Riccardo.
Mio padre, l’ultima volta, l’avevo intravisto proprio al suo funerale, in fondo alla chiesa, solo e a disagio, sapevo che era lui, ma allora non lo avevo nemmeno salutato. Mi venne l’idea di richiedere un documento in Comune con la speranza di trovare informazioni su di lui. Avevo bisogno di sapere se, anche se avevamo vissuto sempre lontani, mi voleva un briciolo di bene. Ed ecco che la vita era pronta a sferrarmi l’ennesimo pugno in faccia: mio padre era morto già da anni. Lo scoprivo così, grazie ad un estratto di nascita. Nessuno mi aveva avvisata, tanto meno mia madre. Era la fine. Ero certa che non avrei retto anche quel colpo. Ormai desideravo solo annullarmi. Toccare il fondo. La vita per me non aveva in serbo nulla di buono.
È stato allora che sono diventata Morgana, un soprannome che per me era più che altro un’altra identità alla quale aggrapparmi per sentirmi diversa, più forte, più viva. Ma per sentirmi viva, avevo bisogno di trasgredire. Di osare. Di rischiare. Quando arrivò internet, iniziai a frequentare chat di un certo tipo dove, per l’appunto, mi presentavo come Morgana. Così, per provare emozioni forti, sono entrata in un mondo nuovo, quello del BDSM: Bondage, Dominazione, Sottomissione. Un universo che mi aveva attratta come una calamita proprio perché avevo bisogno di sperimentare e di sentirmi libera. Libera anche di distruggermi se necessario.
Dagli incontri virtuali in chat al cominciare ad essere invitata a ritrovi reali, il passo è stato breve. E la cosa assurda è stata che lì in mezzo, sin dal primo incontro, mi sono sentita a casa. Se ero matta, forse anche la mia famiglia non poteva essere altrimenti. Ed io una famiglia non ce l’avevo più. È stata questa nuova strana famiglia che mi ha introdotto al bondage. In quel mondo ci vidi subito infinite possibilità: eccessi, stereotipi, ma anche bellezza. Delle corde mi ci sono innamorata subito ma io non ci ho mai visto il lato erotico, la trasgressione, no, ci ho visto la promessa di un legame. Non volevo che le corde fossero un simbolo di dominio, volevo che raccontassero storie di libertà e forza interiore. Così ho iniziato a studiare. Mi sono buttata in quel mondo a capofitto. È stato grazie alle corde, all’imparare a legare in sicurezza, che ho trovato la mia strada, la mia identità. La mia arte.
Ricordo la prima volta che mi hanno invitata a uno spettacolo, un evento di body art estremo. Sapevo cosa si aspettavano da me: la trasgressione, l’eros, il lato oscuro. Invece ho spiazzato tutti. Sul palcoscenico ho creato un’arpa umana, legando un corpo femminile con dolcezza e armonia. Ho messo in scena il mio desiderio di costruire legami. Ho creato un nuovo modo di esprimermi, di raccontare storie di donne e non solo. Drammi, ferite, ma anche amore e vita, attraverso le mie corde e le mie legature. Niente di tutto questo era mai stato fatto prima. E i critici d’arte lo hanno compreso. Hanno iniziato a chiamarmi per mettere in scena nei festival e nei musei i miei progetti e le mie installazioni con le corde. Avevo trovato la mia strada finalmente. Avevo creato la mia arte per riuscire a comunicare chi ero veramente, per smettere di nascondermi. Tutto quel dolore e quel senso di vuoto, mi avevano condotto lì. Avevo trovato la mia voce: ero diventata una rope artist.
E come spesso accade, quando ho iniziato a stare bene con me stessa, con il mio corpo, con il mio passato e le mie scelte, sono arrivati anche i veri amici e l’amore. Dopo anni di relazioni difficili, di delusioni e fughe, un giorno ho risposto a un messaggio su Facebook. Era un ragazzo con gli occhiali, dall’aria semplice, incuriosito da una mia performance artistica. Abbiamo iniziato a sentirci al telefono, la sua voce mi ha colpito subito. Era dolce, intelligente, diverso dagli altri. Aveva un lavoro stabile, una laurea con lode, una capacità inaudita di ascoltarmi e comprendermi e nonostante gli avessi raccontato molto di me, anche la parte più folle e trasgressiva, lui, Mauro, aveva continuato a non giudicarmi.
Al primo appuntamento, ho saputo dopo, aveva avvisato alcuni suoi amici dicendo loro: «Questa ragazza mi piace molto però sembra un po’ matta. Se non mi vedete tornare, chiamate la polizia». Non ce n’è stato bisogno, fra noi è stato subito amore. Grazie a lui ho scoperto una nuova me: serena, forte, in grado di essere finalmente felice. Siamo insieme da sedici anni e siamo molto legati. Viviamo in una bella casetta fra gli ulivi, a un’ora e mezza da Roma, con il nostro cane e le galline. Una vita serena, la nostra, piena d’amore, di arte e di amici che spesso vengono a trovarci. Oggi, quando mi guardo indietro, non vedo alcuna cattiva né brava ragazza. Vedo i graffi, le ferite, le scelte estreme, certo, ma di più vedo il superamento di tanti ostacoli e le conquiste. Vedo una donna libera, capace di amare e di esprimersi attraverso l’arte. Una donna che non ha mai smesso di cercare se stessa e che, passo dopo passo, ha trovato il proprio posto nel mondo.
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