La prima tazzina al bar l’ho bevuta circa quindici giorni fa, ancora in pieno lockdown, quando i primi esercizi commerciali aprivano solo con il servizio di asporto. Me l’ha passata il barista attraverso la feritoia nel plexligass che nel frattempo avevano montato sul bancone. Poi con il bicchierino sono uscita in strada a gustarmi il primo caffè dell’era Post Covid.
Prima di salutarmi il barista mi ha mostrato la certificazione di sanificazione del locale fatta pochi giorni prima, e mi ha chiesto: «cosa dici la appendo fuori? Può essere utile per i clienti?».
Gli ho naturalmente detto di sì e poi ho inforcato la bici (il mio nuovo mezzo di spostamento) e me ne sono tornata verso casa.
Avevo ancora in bocca il sapore di quel meraviglioso caffé e nelle narici il profumo che si era sparso nell’aria, inusitatamente tersa, un profumo noto eppure anche nuovo, come quando si sta tanto tempo senza sentire un odore e lo si riscopre più intenso e forte come se fosse la prima volta che ne facciamo esperienza.
Così quando ho letto su Confidenze il servizio Mi ha salvato un caffè di Federico Toro dedicato a Giuseppe Schisano e alla sua iniziativa imprenditoriale “Don Cafè. Street Art coffee”, un chiosco itinerante che va in giro per Napoli a vendere la famosa tazzulella napoletana fatta con la cuccuma, ho pensato a come sarebbe stato bello importare un’iniziativa del genere anche nelle nostre città del nord. In epoca Ante Covid (qualcuno ha fatto notare come ormai sia questo il nuovo spartiacque della nostra storia) si erano già diffusi i cosiddetti street food, tipicamente ape car adibiti alla vendita di specialità gastronomiche (a Milano andavano tanto i frullati fatti al momento con la frutta fresca, oppure la vendita di cestini di fragole e frutti di bosco) ma nessuno aveva ancora pensato a una bella tazzina di caffè magari napoletano da distribuire per strada.
Eppure se c’è una bevanda che meglio interpreta il nostro spirito italiano nel mondo e anche l’esigenza di socializzare questa è il caffè . Ci si dà appuntamento al bar con l’amica che non si vede più da tanto tempo dicendole: prendiamoci un caffè. Si spezza la giornata lavorativa con i colleghi trovandosi al bar o alla macchinetta per fare quattro chiacchiere (e mai questa pausa mi è mancata così tanto come in questi mesi di smart working) e ancora si gettano le basi magari per un nuovo affare condividendo un gesto, così normale, così semplice e anche economico come bere una tazzina di caffè. Un gesto che unisce ma nello stesso tempo divide: pensate al caffè arabo o al caffè greco, fatto con quella polvere terrosa che deve depositarsi sul fondo della tazzina, e che già quindi richiede tempo, attesa, prima di essere bevuto, un cerimoniale molto diverso da quello dell’espresso trangugiato al bar la mattina in tutta fretta prima di andare al lavoro. Oppure pensate al caffè americano, quella brodaglia diluita che chiunque è stato all’estero è costretto a trangugiare la mattina, finché non trova un bel bar con l’insegna di una miscela italiana, e allora la vacanza è salva!
E poi c’è profumo di caffè dei ricordi d’infanzia. Se il nostro giovane imprenditore napoletano rammenta sua nonna che preparava la cuccuma (la tipica caffettiera napoletana da ribaltare in modo da miscelare la polvere all’acqua bollente) io ho ben presente il rito del caffè per come lo vivevano diversamente i miei nonni. La nonna quando uscivamo insieme e io ero bambina mi portava all’Alemagna di via Manzoni (quella dei panettoni, per i più giovani è lo spazio occupato oggi dal grande negozio e hotel Armani) dove lei si gustava sempre il caffè con panna facendomi assaggiare col cucchiaino un po’ di quel mix meraviglioso di panna e caffè che a me già sembrava una grande trasgressione.
In campagna invece, d’estate, dominava la parsimonia del nonno, frutto degli anni della guerra e del suo senso atavico del risparmio. Lui era famoso per il secondo caffè. Sapete di cosa si tratta? In pratica si riutilizzavano i fondi del caffè della macchinetta precedente per fare un nuovo caffè, operazione mostruosa, che mandava su tutte le furie la nonna, e il cui esito era una miscela più simile alla cicuta che al caffè, ma tant’è. All’epoca, erano gli anni 70, permaneva il retaggio della dispensa (abitudine prepotentemente tornata nelle nostre case oggi dopo il Covid), nella credenza accanto a farina e zucchero, la nonna teneva sempre la miscela di caffè, quella macinata fresca, la andava a comprare in una torrefazione ed era un presente che portava nelle varie visite a zie e parenti del luogo, anche questa un’usanza simbolo di un’epoca che aveva conosciuto le privazioni della guerra e sapeva quanto potesse essere preziosa una confezione di farina o di zucchero. Io però che in casa vedevo i miei genitori acquistare e consumare caffè normalmente, mi chiedevo il perché la nonna custodisse così gelosamente tale miscela, da farne dono come se fosse qualcosa di prezioso.
Ho ripensato a tutte queste cose, adesso che per mesi siamo stati privati anche del gesto più normale come bersi una tazzina al bar (un rito che, non c’è George Clooney che tenga, non può essere sostituito da nessuna macchinetta) e ora che possiamo tornare a gustarcela non dimentichiamoci di quanto spesso si dà per scontato: siamo il Paese con il caffè più buono del mondo.
“Mi ha salvato un caffè” confessa il nostro Giuseppe Schisano, protagonista de La mia svolta. E vorrei che anche la mia città Milano, tornasse a pulsare come prima, senza paura, magari attorno a uno street food che offre la tazzina per la strada. Quest’estate non potremo andare all’estero in vacanza (e forse neanche in vacanza, visto la crisi generale), consoliamoci almeno con una buona tazzina di caffè italiano e chissà che non si possa dire anche noi “Mi ha salvato un caffè”.
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