Per natura e per educazione ricevuta, di solito tendo a lamentarmi poco e a raccontare i miei problemi cercando di riderci sopra. Quindi, chi non mi conosce bene è spesso propenso a credermi una persona dal carattere calmo e rilassato, la forza interiore granitica e l’atteggiamento solare nei confronti della vita.
In realtà, non c’è niente di più falso. Da che ho memoria, infatti, le mie giornate sono sempre state scandite dall’inquietudine. Ma se fino a qualche tempo fa si traduceva nella benzina che mi dava sprint, negli ultimi mesi si è trasformata in una specie di fardello che grava su di me con il suo peso micidiale. Tant’è che sfogliando Confidenze di questa settimana, il primo articolo che istintivamente mi sono messa a leggere è stato Stop all’ansia in 10 mosse. Il cui sommario recita: a piccole dosi è un’amica.
Certo. Quando è moderata, sono assolutamente convinta che l’agitazione faccia bene al corpo e alla mente. Perché tenendo il cervello attivo e il fisico pronto a reagire, crea un magico binomio capace di alimentare il desiderio di fare e stuzzicare la voglia di portare a termine ogni progetto.
Le cose cambiano, però, nel momento in cui l’inquietudine comincia a diventare uno stato d’animo costante, come sta accadendo a me dopo un anno di vita gestito dalla pandemia.
Pur avendo accettato il Covid con spirito positivo e aver tentato di coglierne gli aspetti più felici (per esempio, mi ha svelato che la solitudine mi pesa meno di quanto pensassi), ammetto che adesso inizia a palesare i suoi effetti nefasti. Primo fra tutti, la paura che provo ogni volta che devo fare qualsiasi cosa.
Per esempio, buttarmi sotto la doccia, che ho sempre considerato il modo migliore per darmi il buongiorno. Invece, adesso rimando l’appuntamento sempre più in là, completamente in preda all’ansia. Tant’è che mentre lavo i denti, la guardo dilaniata tra il desiderio di entrarci e il terrore che il suo getto mi travolga come le cascate del Niagara.
Stesso atteggiamento patologico ce l’ho nei confronti dei quattro passi mattutini per comprare giornali e sigarette. L’edicola e il tabaccaio gestito da due fratelli troppo simpa a 200 metri dal mio portone, infatti, mi sembrano più lontani della Papuasia. E l’idea di raggiungerli mi angoscia come se dovessi prendere un aereo macilento, un autobus senza freni e farmi un tratto a piedi nella giungla, armata di machete per difendermi dalle ultime insidie che mi separano dalla meta.
Non vi dico, poi, la spedizione al supermercato. Nel passato equivaleva al paese di Bengodi e appena ne varcavo la soglia girellavo raggiante a caccia delle più ghiotte leccornie. Mentre oggi lo frequento come fosse il più malfamato quartiere di una città pericolosa. Cioè, strisciando lungo gli scomparti, tipo gli scagnozzi delle bande criminali che rasentano i muri per non farsi sparare dal nemico.
Nulla migliora quando si avvicina la partenza per il weekend. Che prima del Covid mi metteva la gioiosa frenesia dei bambini che vanno in gita già dal mercoledì. E che ora, sempre dal mercoledì, mi scatena apprensione a mille. Perché la mia mente ormai bacata vive il traffico al pari di un formicaio di insetti giganti pronti a divorarmi. E la Liguria, nel caso miracoloso in cui riuscissi a raggiungerla sfuggendo ai mostri, un pericolosissimo territorio di sabbie mobili.
Potrei andare avanti con altri mille esempi, ma credo di aver già dato prova di che brutta bestia sia l’ansia. Per fortuna, al momento so ancora ascoltarla e localizzarla (è una delle 10 mosse suggerite dall’articolo per liberarsene). E mi conforta il mal comune del far parte del 54% degli italiani che dichiarano quanto il Covid abbia inciso sul loro stato emotivo.
Detto questo, mi auguro un repentino cambio di registro il 6 giugno, quando finalmente farò il mio primo vaccino. Sempre ammesso di non aver compilato un modulo per un’iniezione di cianuro (visto che ho paura anche di questo!!!).
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