“Io sono rimasto qui, su questa panchina, ad attendere l’evento che ha appena avuto luogo – e cioè l’accensione delle luci del molo. Come ho detto, la felicità con la quale i cacciatori-di-divertimenti radunatisi su questo molo hanno salutato questo piccolo evento tenderebbe a farsi garante della esattezza delle affermazioni del mio compagno; per moltissime persone la sera è la parte più bella della giornata. E forse allora vi è del buono nel consiglio secondo il quale io dovrei smettere di ripensare tanto al passato, dovrei assumere un punto di vista più positivo e cercare di trarre il meglio da quel che rimane della mia giornata. Dopotutto che cosa mai c’è da guadagnare nel guardarsi continuamente alle spalle e a prendercela con noi stessi se le nostre vite non sono state proprio quelle che avremmo desiderato?”
Giovedì 5 ottobre, come sempre a ridosso delle 13, l’Accademia di Svezia ha svelato Il Nome. Tra tutti i Nobel assegnati, quello alla letteratura è da sempre il più atteso, il più discusso. Lo scorso anno la vittoria di Bob Dylan provocò infinite polemiche e quest’anno i puristi del settore erano certi che ci sarebbe stata una scelta classica, quasi il tentativo di rimettersi su binari più tradizionali.
Tutti gli amanti di Roth speravano potesse essere questa la volta buona. E in fondo anche chi poco lo sopporta: poter leggere, o guardare, la sua reazione sarebbe stata una curiosità impossibile da trattenere per chiunque.
Quando la bella signora dalla non vaga somiglianza con Sigourney Weaver ha pronunciato, prima del nome, le parole “allo scrittore inglese” a me si è fermato il cuore: “ecco, finalmente!”, ho pensato. McEwan! Il mio amatissimo McEwan! Ma è durato un attimo. “Kazuo Ishiguro”, ha completato.
Non sono una sua fan sfegatata. Né una sua lettrice affezionata. Però ho amato molto Quel che resta del giorno, romanzo del 1989 che io lessi per caso dopo non aver visto la riduzione cinematografica di James Ivory. Mi aveva però colpito il trailer, la profondità di sguardo di Anthony Hopkins, l’attore che prestava volto ed emozioni al protagonista del romanzo, l’anziano maggiordomo Stevens.
Forse solo un orientale (Ishiguro è nato a Nagasaki) poteva riuscire nell’intento di rendere accattivante la storia di una storia che quasi non c’è. Stevens ha dedicato la sua vita al servizio della vita altrui. Anche suo padre aveva svolto la stessa professione, rendendola agli occhi del figlio, naturale, necessaria. Il senso del dovere verso Lord Darlington lo porterà ad accettare in silenzio ogni grido della sua coscienza in rivolta verso le posizioni filonaziste del superiore e verso la negazione e soppressione dei suoi sentimenti amorosi.
Una forma lessicale assolutamente originale e in linea perfetta con il contenuto del romanzo rende questo libro indimenticabile. Impostazione dialettica, spalle sempre dritte, cuore messo via. Ci sarà mai tempo, per Stevens?
Non leggetelo se non siete pronti a guardarvi indietro. È letteratura, non intrattenimento. E la letteratura spesso è peggio di una seduta dallo psicoterapeuta: può mostrarci cose che non vogliamo vedere. Quel che resta del giorno può essere splendido, in virata e svolta. Ma può anche essere un titolo di coda in linea con tutto il resto. Scegliere. Dipende tutto dalla capacità di scelta ‘rivoluzionaria’ di ognuno.
“Non vi è merito alcuno nel rimanere aggrappati alla tradizione esclusivamente per il gusto di farlo”.
Kazuo Ishiguro, Quel che resta del giorno, Einaudi
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