Josefa Idem rimane la sportiva italiana che ha vinto di più, fra mondiali e Giochi olimpici. Vi raccontiamo la sua storia su Confidenze
Sono stata una delle prime campionesse olimpiche di canoa, ho vinto ori e argenti, ma l’ostacolo più grande è stato superare i pregiudizi di genere sulle atlete. Alle sportive di oggi voglio dire: non lasciatevi intimidire e fate squadra
STORIA VERA DI JOSEFA IDEM RACCOLTA DA VALERIA CAMAGNI
Quando parlo della mia carriera sportiva dico sempre che è lo sport ad avermi chiamato e non io ad averlo scelto. Decisi di fare canoa per passione, allora andavo a scuola ad Hamm, la cittadina dove vivevo con la mia famiglia, vicino a Dortmund, nella Germania dell’Ovest. Cominciai da ragazzina e sui campi di regata ho passato gli anni della mia adolescenza e poi la giovinezza fino all’età adulta, più precisamente dal 1976 al 2011 partecipando a ben otto Olimpiadi. All’epoca non era così scontato che una ragazza di 12 anni praticasse canoa, uno sport ritenuto maschile, dove muscoli e forza fisica si misurano quotidianamente negli allenamenti per le regate.
Nel 1976 il prezzo da pagare per chi voleva fare canoa a livello agonistico era altissimo; i miei coetanei maschi non accettavano che una ragazza potesse fare tempi migliori di loro e spesso se ne uscivano con frasi come: «Non sei una vera femmina perché vai forte in canoa». Posso dire di aver subito vere forme di bullismo dai compagni di squadra che non accettavano che una ragazza potesse riuscire là dove loro facevano fatica. Oggi sono cambiate molte cose, ma allora io mi sentivo molto sola. Come tutte le ragazze di quell’età, volevo essere carina e piacere ai maschi, ma per contro mi scontravo con un fisico
che di femminile aveva poco. “Una cicogna nell’insalata” così mi chiamavano per via delle mie gambe secche come grissini. Quindi pensavo di essere io in difetto, di avere qualcosa di sbagliato.
Ricordo quegli anni come un periodo di grande solitudine, tutte le mie amiche si fidanzavano, alcune lasciavano lo sport. Ecco questo dualismo, questa difficoltà a farmi accettare e ad accettarmi per quella che ero non solo era sempre presente in me, ma mi influenzava anche in gara. Mentre durante gli allenamenti facevo tempi ottimi, e spesso superavo i miei compagni maschi, nelle finali arrivo sempre seconda o terza. La mia prima medaglia di bronzo la vinsi alle XXIII Olimpiadi di Los Angeles del 1984. Non riuscivo a spiegarmi perché in gara non
facessi tempi migliori, poi negli anni ho capito che era una forma di autosabotaggio: era come se in me scattasse l’istinto a non cacciarmi nei guai e accontentarmi così di un secondo, terzo posto, quando invece avrei avuto tutte le carte in regola per vincere. Ecco, questo atteggiamento rinunciatario, la tendenza ad accontentarsi di un ruolo di secondo piano, l’ho poi rivisto molte volte in altre sportive, quasi che dovessimo scusarci con gli altri per il fatto di essere forti.
Solo quando ho conosciuto mio marito, Guglielmo Guerrini, nel 1989, ho maturato questa consapevolezza: lui era un calciatore, uno sportivo e amava le atlete, quindi tutti i complessi che mi ero fatta con lui non avevano ragion d’essere, gli piacevano i miei muscoli e considerava le ragazze normali delle pappe molli. Ci siamo sposati nel 1990 e lui è diventato il mio allenatore e quindi il nostro sodalizio si è esteso anche allo sport. Nel frattempo avevo preso la cittadinanza italiana e quindi potevo concorrere come atleta per il vostro Paese alle Olimpiadi.
Il tema dell’identità di genere però ha continuato a tormentarmi fino alla fine della mia carriera sportiva. Ricordo che quando si usciva a cena con gli amici, spesso ero in imbarazzo se dovevo togliermi la giacca, chiedevo scusa perché mi vergognavo a mostrare i muscoli. Nel 2006 stavo pensando di smettere: con la maglia azzurra avevo già vinto la medaglia di bronzo alle olimpiadi di Atlanta del 1996, l’oro alle Olimpiadi di Sydney 2000 (in parte rovinato dall’accusa ingiusta di doping dalla quale poi è risultata esente, ndr) e l’argento alle Olimpiadi del 2004 di Atene, forse potevo fermarmi qui.
Nel mezzo c’era stata la nascita dei miei due figli Janek nel 1995 e Jonas nel 2003, oltre appunto alle mie tre medaglie olimpiche da mamma e c’era stata anche la mia prima esperienza in politica. Nel dicembre del 2000 infatti ero stata chiamata da Sergio Frattini, dell’allora Partito dei Democratici di Sinistra, a candidarmi come assessore allo sport per il consiglio comunale a Ravenna, un incarico al quale poi sarebbe seguito quello di Ministro per le Pari Opportunità nel governo Letta del 2013.
Ma tornando al 2006, in un momento di incertezza decisi di mettermi a scrivere la mia autobiografia e in quell’occasione sono riuscita finalmente a dare un nome a quello che mi aveva investito da ragazza: la scrittura autobiografica è stata la chiave di volta per capire tante cose, per fare un viaggio in fondo a me stessa. Di pari passo ho intrapreso gli studi di Psicologia e mi sono laureata in questa disciplina. Anche questo percorso mi ha aiutata vedere le cose in modo diverso.
Poi ci sono state le mie ultime Olimpiadi di Londra del 2012 dove per un soffio non ho vinto la medaglia di bronzo, e dove all’età di 48 anni ho annunciato il mio ritiro.
Oggi credo che le ragazze che si avvicinano a uno sport agonistico maschile come può essere il calcio o la canoa trovino meno difficoltà a essere accettate, tuttavia vedo il perdurare di certi limiti, il primo dei quali e forse il più evidente è la mancanza di spirito di gruppo: noi donne facciamo fatica a fare squadra, a solidarizzare tra noi, a differenza degli uomini che ci riescono benissimo. E poi ci accontentiamo del posto che ci danno, anche quando meriteremmo di più. La nostra grande risorsa però è proprio la diversità dagli uomini, che non va annullata; si può ridurre la diversità, ma se risali la corrente per farti valere, se hai consapevolezza di questo, ecco che le differenze si attenuano.
Oggi sono cambiate molte cose, prima di tutto esiste un sindacato delle atlete sportive che prima non c’era, e poi le atlete sono incoraggiate e spronate. È vero, ci sono ancora pregiudizi e stereotipi e per combatterli è importante fare squadra tra ragazze e magari seguire i suggerimenti delle atlete più mature che possono dare consigli su come comportarsi in certe situazioni.Ai miei tempi invece ero una ragazzina sprovveduta che si lasciava influenzare e si identificava in certi commenti malevoli. Forse oggi avrei la forza di reagire diversamente. Ma ripeto il contesto culturale e sportivo odierno è cambiato, ci si può confrontare con qualcuno molto più facilmente. Dopo la mia parentesi come Ministro della Pari Opportunità nel 2013, oggi mi occupo della formazione nel settore giovanile scolastico all’interno della Federazione Italiana Calcio e sono a contatto tutti i giorni con questi problemi. Le resistenze spesso nascono nelle stesse famiglie di origine che non vedono di buon occhio che una figlia pratichi uno sport maschile. Insomma di strada ce n’è ancora da fare ma l’importante è avere qualcuno vicino. Qualcuno che può spronarti a fare sempre meglio. ●
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In Controcorrente (Sperling & Kupfer, 2007) racconta l’infanzia in Germania, gli esordi nella canoa con le difficoltà che una ragazzina di 12 anni incontrava alla fine degli anni ’70 nel praticare uno sport a livello agonistico. Il libro è una cronistoria dei successi, dell’impegno politico ma anche delle scelte personali. Da Confidenze n.11
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