I miei figli sono nati in un periodo balordo. Cioè, nel momento in cui il mondo era nel bel mezzo di un cambiamento epocale, con le donne decise a non rinunciare alla carriera per seguire soltanto la prole.
Tale inversione di rotta, è ovvio, non è avvenuta all’improvviso. Tant’è che, pur essendo cresciuta in una famiglia anni ’60, con la mamma a casa e il papà in ufficio, fin da piccola sapevo che non mi sarei occupata dei miei futuri bambini 24 ore su 24. Perché già allora sognavo un lavoro, indipendenza economica e possibilità di essere padrona di me stessa.
In realtà, dopo che è nato il secondo figlio qualche tentennamento sulla doppia mansione (crescere le creature e tirare la carretta) l’ho avuto. Ma la frase del mio allora marito: «Torna in redazione e prova. Se poi non ce la fai a conciliare, licenziati» mi ha salvata da una scelta di cui mi sarei sicuramente pentita.
In tutto questo, lui si comportava come i padri degli anni ’80. In modo diversissimo rispetto a quelli assenti della mia generazione, ma ancora lontano da I papà di oggi, amorevoli e presenti. Ai quali è dedicato un articolo su Confidenze in edicola adesso.
Ed eccoci al punto. Quando vedo i genitori (maschi) moderni, invece di provare una sconfinata ammirazione mi ripeto che se io avessi avuto accanto un mammo fatto e finito avrei sclerato.
Convinta che all’interno della famiglia ognuno debba conservare il proprio ruolo, infatti, sono fermamente contraria agli uomini che si immolano alla prole con la stessa veemenza delle donne.
In altre parole, non mi intenerisco davanti a un padre con il bimbo nel marsupio. Mi annoiano quelli che parlano di pappe e pannolini. Detesto il genere che descrive le gesta “eroiche” dei propri piccoli (sorrisino, dentino, ruttino).
Ma dai. Questi sono atteggiamenti femminili. E lo dico senza essere una fan della virilità ostentata. Ma tra il macho e il mollacchione penso ci sia una bella differenza.
Ben venga il compagno collaborativo lontano mille miglia dal marito seduto sul divano con il giornale, come se al mondo esistessero solo lui e le sue esigenze (anche perché la società di oggi non lo prevede più).
Un applauso anche a quello che ti sostituisce nel colloquio con le maestre se tu hai una riunione. Che porta i bambini a scuola visto che è sulla strada. Che prova la lezione al figlio dopo cena per essergli più vicino.
Qui, però, dovrebbe fermarsi. Perché mettere sullo stesso piano le figure materna e paterna priva i bambini della possibilità di confrontarsi su due fronti (maschile e femminile). Ed è il motivo per cui rimpiango la vecchia minaccia «Stasera lo dico a tuo padre»: sebbene non fosse simpaticissima, sanciva la differenza di ruoli nell’educazione dei pargoli.
Allora, infatti, il babbo non era un fantoccio alla mercé di figli accentratori ed egoriferiti, ma una persona di tutto rispetto che godeva di un canale privilegiato con la mamma. Dettaglio fondamentale per marcare il confine tra il mondo degli adulti e dei piccoli. E non cadere nell’inghippo del “nella nostra famiglia siamo tutti amici”.
Niente di più sciocco, visto che i genitori non devono essere amici dei figli, ma guide. Sergenti al cospetto di soldati semplici. Capaci di forgiarli, indirizzarli. Aiutarli a crescere forti e sicuri di sé. Un impegno immane che non dev’esser affrontato da due timonieri della stessa pasta, ma da individui ben distinti come prevede la Natura.
La stessa Natura che di notte, quando si sveglia spaventato da un incubo, spinge il bambino a chiamare chi? La mamma!
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