Pubblichiamo sul blog la storia vera di Manuela Gostner, mamma e pilotessa, che in questi giorni si è resa protagonista di un’impresa straordinaria: ha portato a termine a bordo di una Ferrari, con altre due ragazze, la 24h di Le Mans, la leggendaria quanto dura gara endurance, ambita dai piloti di tutto il mondo
Ecco la sua storia vera: Sempre in pista raccolta da Rossana Campisi uscita sul numero 24 di Confidenze di due settimane fa
Vado di corsa, lo diciamo tutte, perché i ritmi quotidiani di una donna con famiglia sono da vertigine. Ma per me vale due volte perché sono una mamma al volante. Io guido le Ferrari da competizione sul filo dei 300 all’ora
I prati sono come le pagine bianche. Ci puoi vedere di tutto. Linee, nuvole, case. Basta piegare i fili d’erba con un piede, abbassarli con una mano, e le forme si intravedono. Come fossero schizzi di un bozzetto. Poi ci ripassi, ci salti e ci corri: alla fine ci costruisci i tuoi sogni. La verità è che accade la stessa cosa anche fuori da lì, sull’asfalto. Ma con me che sono cresciuta a Caldaro, un paesino altoatesino, le valli e le malghe sono state audaci. Mi hanno concesso di godermi il potere dell’immaginazione, mi hanno regalato il lusso di ritrovarmi a pensare quanto di più lontano ci sia da loro: il nero di una pista, il rumore del motore, la velocità. È successo che su quei prati ho sognato di diventare pilota di Formula 1 e ci sono riuscita per caso perché in realtà io ero una pallavolista: mi divertivo a saltare, schiacciare a terra la palla, ero un’atleta come tante che è arrivata a giocare in serie C e puntava a diventare una giocatrice professionista.
Un martedì pomeriggio invece niente palla: mi sono trovata al volante di una Ferrari. Era il 2004. Ho chiesto di fare un giro accanto a mio fratello David, perché è normale quando in casa cresci con un pilota già affermato come lui e un padre, Thomas, che in pista ci ha vissuto un’intera vita. Cresci, insomma, pensando: prima o poi ci provo. Dopo quel pomeriggio, ho voluto ritentare, ma sono salita da sola. Avevo 32 anni. Ero solo io con il volante, ed è stato colpo di fulmine. Ho lasciato la pallavolo, la mia squadra, ed ero anche triste. Ma è successo che ciò che pensavo dovesse essere un piano B è diventato un pensiero fisso. La passione mi ha travolta.
Ancora oggi mi sembra incredibile. Il tutto è avvenuto in pochissimo tempo, da quel giorno non ho più smesso di correre. Alle mie figlie questa storia non l’ho ancora raccontata. Maja, undicenne, e Laura, sette anni, sono orgogliose della mamma e sanno che faccio un lavoro particolare. In realtà, io credo che sia un lavoro come tanti altri. Uno di quelli che sembra essere stato pensato dagli uomini per gli uomini. Fin dal sedile. Sì perché sarebbe bello sentirlo comodo e aderente al corpo di una donna quando mi siedo: e invece nulla!
E i rischi? Meglio sfatare tante convinzioni: il motorsport che pratico io è senza dubbio tra le specialità più sicure. Lo sono le vetture e lo sono anche le piste. Diciamo che è molto più pericoloso correre in moto o fare rally per esempio. In quel caso mi sarei posta molte più domande in veste di mamma. Nel mio caso il pericolo, anche se realmente esiste, è abbastanza sotto controllo. Andare a sciare o arrampicare in montagna è rischioso come fare motorsport, in sostanza.
A tutto questo in ogni caso penso poco, quando corro. Chiusa la portiera, dimentico tutto perché quel tutto dipende da me, anche se dietro ho una squadra e un’intera famiglia che mi sostiene da sempre. Infatti, anche Corinna, mia sorella, ha intrapreso questa strada da poco. Ecco se c’è qualcosa che a fine gara vorrei che arrivasse dritto alle mie figlie è una bella botta di adrenalina che io chiamo “coraggio”.
Vorrei che crescessero senza la paura di lasciare la propria zona di comfort per inseguire i propri sogni. Io li ho inseguiti sui prati, loro stanno imparando a inseguirli ovunque e con me. Dopo la scuola, sono la mamma che le accompagna alle lezione di flauto, alle prove di balletto, agli allenamenti di pallavolo. Sì, a parte gli allenamenti al mattino e il negozio di abbigliamento che gestisco, vivo le mie giornate come una mamma normale che va a prendere le figlie all’uscita, che fa shopping di belle borse e tacchi a spillo, che fa al volo la spesa al supermercato e non ha mai tempo. Se parto per le gare, conto sulle amiche, su mia sorella o sul loro papà da cui mi sono separata. Se è il caso ho anche una babysitter.
Al di là di tutto, continuo a pensare che non è impossibile inseguire un sogno del genere per una donna. So di avere dei vantaggi in famiglia: quando ci ritroviamo a tavola tutti insieme l’argomento centrale non può essere che quello delle corse, delle nostre gare, e poi campionati, notizie e commenti sugli altri piloti. Siamo una famiglia sui generis, certo. In ogni caso non abbiamo una lunga storia nel mondo della Formula 1, anzi tutto è nato molto recentemente: ci accomuna solo la passione.
Quanto a me, prima di ogni gara ho anch’io i miei riti. Indosso casco e guanti sempre nello stesso modo e con la stessa procedura, faccio una piccola preghiera personale, cerco di trovare tutta la concentrazione mentre sono fasciata dalla tuta che ha tre colori: nero, blu e fucsia (ah, ho anche le scarpe abbinate, mica ho deciso di rinunciare alla mia femminilità!). E poi parto. Se è il caso tenendo distante la paura: se invece capisco che è lei quella che può proteggermi, cerco di ascoltarla. Non mi sono mai posta il problema di cosa possa mancare a me in quanto donna per vincere: adrenalina e competizione fanno parte dell’indole femminile e servono dentro l’abitacolo.
Quello dei motori non è, insomma, un mondo così lontano da noi. È una disciplina che ti permette di tirare fuori le tue capacità migliori. Ed è affascinante. Alle giovani direi che mai come in questo sport serve ricordarsi sempre chi si è e che cosa si è in grado di fare. Serve ascoltare sempre la propria sensibilità, molto forte nelle donne. Certo: sensibilità e tecnica sono i due elementi chiave per saper guidare, quando si guida, in fondo, è come se si stesse danzando. E poi serve quel lavorare sodo, allenarsi e faticare in cui noi siamo così brave.
Il motorsport è molto rude e tosto, ma è giusto che sia cosí, è la sua caratteristica principale che lo rende affascinante anche agli occhi di una donna. Non c’è niente che cambierei. L’unica cosa che vorrei è una rivoluzione nell’abbigliamento e nelle attrezzature. Tutte le divise e gli accessori sono pensati sulla base di misure maschili. Mi piacerebbe trovare oltre a un sedile anche una tuta che rispetti le forme di una donna.
Ci penso ogni volta che leggo le biografie dei grandi personaggi, le mie letture preferite. Ho conosciuto così quelle di Serena Williams e Michelle Obama, donne che in un modo o nell’altro hanno già lasciato un segno nella storia. Certo, il mio mito resta Ayrton Senna e se devo ricaricarmi ascolto Don’t stop me now dei Queen: la canzone invita a regalarci dei momenti bellissimi, godendoci la vita, dimenticando tutto ciò che potrebbe bloccarci a terra e credere di volare e toccare le stelle.
È quello che provo durante le gare, ognuna è legata a emozioni molto forti. Indimenticabile, quella dello scorso settembre, a Barcellona: sono partita in pole position e sono riuscita a conquistare la mia prima vittoria. Ero molto orgogliosa. Tra poco, parteciperò alla gara della vita: la 24 ore di Le Mans, un sogno pazzesco che si avvera. Per il futuro, penso ad altre gare leggendarie come la 24 ore di Sebring o di Daytona.
Gara dopo gara, so di star correndo la migliore che potesse toccarmi in sorte: è la gara della felicità nella mia vita. In questo caso basta fare il pieno ovunque, basta l’amore. ●
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