Il 13 ottobre Giulia Blasi, scrittrice e conduttrice radiofonica, lancia l’hashtag #quellavoltache dal suo profilo Twitter @Giulia_B: Molestie, abbordaggi, violenze, apprezzamenti: un progetto collettivo per raccontare come ci si sente, se abbiamo parlato, e se no, perché
È partita pochi giorni fa ed è già un’alluvione. Sto parlando della campagna social #quellavoltache, varata dalla giornalista Giulia Blasi dopo le denunce di tante attrici contro il produttore Harvey Weinstein. Se digitate in Rete #quellavoltache, troverete migliaia di testimonianze: “quellavoltache un datore di lavoro mi infilò le mani sotto la maglietta, e io per la vergogna lasciai il lavoro“. Oppure: “quellavoltache il Rettore dell’Università mi disse: «vuole restare a lavorare qui? venga letto con me. per quanto sia troppo magra. Noi maschi vogliamo toccare carne»”. Ancora: “quellavoltache a una cena elegante uomini stimati raccontavano le loro vacanze da turisti sessuali con le bambine nell’ilarità generale”. Ecco di cosa parlano. Di molestie o abusi, da parte di uomini di potere. Insegnanti, capi ufficio, datori di lavoro, psicologi, medici, professionisti. Ogni messaggio racconta una storia diversa, ma in qualche modo “già sentita”. Per forza (e che rabbia!): cambiano i contesti, ma a parlare potrebbero essere le nostre nonne. Potere e desiderio sessuale sono da sempre leve potentissime e, per una donna che sta al gioco senza scottarsi o che lo denuncia e ne esce vincitrice, ce ne sono decine che subiscono e basta.Vengono molestate e tacciono per paura oppure se ne vanno per non essere ricattate, ma non cambia molto. È comunque una resa, così spesso coperta dal silenzio che si sente qualcosa di liberatorio in tutte queste voci che ora escono allo scoperto. Si è aperto il tappo del pudore, della vergogna, della paura e si è aperta una diga inarrestabile. Parlare, raccontare, scoprire di non essere l’unica dà forza, sicuramente. Ma poi? Vogliamo che, passata qualche settimana, il tappo si chiuda, nessuno ne parli più e tutto ricominci come prima? Sarebbe bello che questa campagna fosse l’inizio di qualcosa. Per esempio, di un tavolo di confronto aperto. Di un luogo anche virtuale dove ogni donna possa raccontare quello che le è successo senza paura di essere giudicata. Intanto, qualcosa si muove nel mondo maschile: con l’hashtag #ihave (“io ho”) gli uomini confessano in Rete di avere sbagliato. Eccone uno: “Sono stato parte del problema. Ho considerato normale l’inferiorità delle donne (e dei neri e dei disabili) da quando sono nato perché la mia educazione mi ha insegnato questo. Cambiare richiede prima di tutto un risveglio, molta tensione e coraggio”. Che ne dite? Lo so, sono parole, e non bastano. Però, se questo è un seme, qualcosa ne nascerà!
Editoriale pubblicato su Confidenze n. 44/2017
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