“Più del tempo e dello spazio, la storia la fanno le parole. Vaffa, rottamare, convergenze parallele, trasformismo ma anche me ne frego e torni a bordo cazzo, sono parole che, in un certo momento dell’azione storica, sono state al centro di tutto, come le città capitali che sono la vetrina e il cuore profondo dei paesi. Raccontare dunque le parole di un’epoca è il modo migliore di farne la storia, di afferrarla tutta intera. (…) E poiché il codice linguistico e il codice dell’anima hanno la stessa sostanza, nelle parole ci sono i sentimenti che descrivono, esplorano e propongono una diagnosi del tempo e del luogo – l’Italia che diventa repubblica – che la cronologia e la geografia non permettono. (…)
àtinU. Rivedo, scritta a rovescio, la parola Unità. E ho davanti agli occhi Radames, il tipografo figlio di un melomane che, con la sigaretta in bocca e le manone nere, impaginava il mio giornalino: l’Aquilone.Il primo numero uscì nel 1961, l’anno del centenario dell’Unità d’Italia. Ero in quinta elementare e avevo dieci anni. Firmavo l’articolo d’apertura: 1861-1961, abbiamo fatto l’Italia parlando male di Garibaldi. Ne percepii la forza non quando lo scrissi, ma in tipografia, quando lessi il mio nome al contrario, in rilievo e in neretto sulla sua barretta di metallo. Per moltissimi anni solo al contrario le parole diventavano emozioni. Durante l’impaginazione, infatti, io stavo dall’altro lato del bancone, il posto dei giornalisti. E Radames mi insegnò a diffidare dei cronisti che usavano si dice, si crede, si racconta, la documentazione impersonale, l’invettiva anonima, le cattiverie dell’immaginazione accesa e nemica. I tipografi sono stati i miei primi maestri”.
Monarchia è la prima parola della Storia sentimentale d’Italia in poche parole, il curioso, originale e gradevolissimo libro di storia del nostro paese di Francesco Merlo. Si parte dal 2 giugno del 1946, e a raccontarci lo spirito e l’umore di quel giorno ci pensano la mamma e il papà del giornalista siciliano. Come a dire, e non è un avvertimento superfluo, i fatti che leggiamo sui libri sterili e farciti di date e nomi di campi di battaglia e generali e gerarchi e rivoluzionari sono esistiti davvero, li portiamo nel nostro dna. Matria è l’ultima parola del sillabario, una patria ingentilita, un paese che ne ha viste tante ma non ancora abbastanza. Tra queste due parole, scorrono veloci, concatenate, con il ritmo di un memoir pieno di aneddoti che tutti abbiamo vissuto o almeno conosciuto, modi di dire e termini che ricamano gli ultimi 72 anni dello stivale tricolore: referendum, sì ma anche no, eroi, Savoia, tangente, femminicidio, popolo, mafia capitale, trasformismo, rottamare, malafemmina, comunismo, buca, calcio.
Non è la prima volta che consiglio un testo di storia. Non sarà l’ultima. Questo di Merlo è un libro per tutta la famiglia, mai noioso, pieno di profumi, una splendida tovaglia stesa su un tavolo grande, la tovaglia dei giorni di festa, quelli che richiamano la famiglia tutta, quelli che partono con qualche gossip ma poi finiscono per cominciare davvero con il classico ‘ma ti ricordi quando…”.
Ecco. La storia del nostro Paese è una storia che non conosciamo, che sbadigliamo sui banchi di scuola, che ci sfugge via. Ma chi non conosce la (propria) storia, questo faremmo bene ad impararlo e ad insegnarlo ai nostri figli, è manipolabile, è in pericolo se non di vita di presente e futuro.
Francesco Merlo, Sillabario dei malintesi, Marsilio
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