Se c’è un’imposizione che ho sempre detestato è quella del dress code, perché sono contraria a privare chiunque del diritto di vestire come meglio crede.
Quindi, sostengo caldamente la possibilità di rispettare la propria personalità. L’agio di decidere se prediligere eleganza o comfort. E la facoltà di scegliere come presentarsi al prossimo.
Ve ne parlo perché l’articolo Dress code a scuola si o no? (su Confidenze in edicola adesso) rispolvera un argomento sempre attuale: il look che gli alunni dovrebbero indossare in aula.
Sinceramente, trovo il tema senza risposta visto che, da quando a sedermi sui banchi ero io, nessuno l’ha ancora trovata. Nonostante già allora esistessero fazioni di genitori e insegnanti desiderosi di mortificare i ragazzi obbligandoli al grembiule, agguerrite contro quelle dei loro alter ego disposti a lasciare agli studenti la libertà di non metterlo.
Detto questo, secondo il dizionario il dress code è “un complesso di regole che definisce l’abbigliamento appropriato a una determinata occasione o a un determinato luogo”. Una spiegazione che nella forma non fa una grinza. Ma che nella sostanza non si capisce cosa significhi. Nè che valore dia agli aggettivi “appropriato” e “determinato”.
Al giorno d’oggi più che mai, basta fare due passi in strada o accendere la televisione per accorgersi che in fatto di moda tutto è lecito. Vestire sexy o castigato. In tinta unita o come la tavolozza di un pittore ubriaco. Da uomo o da donna indifferentemente dal fatto di essere uomini o donne. Da giorno o da sera senza guardare che ora è.
Tanta libertà e altrettanta creatività secondo me sono grandi conquiste. Il cui valore incommensurabile è la loro innocuità. Perché se è vero che ci sono mises che a me personalmente fanno rabbrividire, che male può farmi la persona che le porta? E cosa mi cambia se, per esempio a teatro, il mio posto è tra un ragazzo con i jeans stracciati e una signora scollata e minigonnata oltre il limite della volgarità?
In realtà niente. Certo, posso considerare il loro dress code non “appropriato all’occasione e al luogo” come recita il dizionario. Ma anche su questo punto è da vedere chi può permettersi di giudicare cosa è appropriato e cosa no. Soprattutto in questi anni in cui, ripeto, tutto è consentito.
Pensate per esempio ad Achille Lauro. Se avesse tentato di salire sul palco di Sanremo ai tempi di Mike Bongiorno o di Pippo Baudo, sarebbe stato cacciato a pedate. Mentre se oggi è diventato un idolo, è anche grazie ai suoi vestiti.
Da fuori di testa per la gente della nostra età. Forse anche per qualche suo coetaneo. Ma per la maggior parte dei ragazzi, Achille all’Ariston è sempre appropriato al 100%.
Magari ho citato la punta dell’iceberg. Eppure, in un mondo in cui finalmente si può andare in ufficio in T-shirt, al supermercato in tailleur, a fare shopping in shorts (se è estate) o con la giacca da sci (in inverno), chi è che ha ancora voglia di parlare del dress code sui banchi?
Un’obsoleta assurdità. Anche perché spesso le idee proposte in sfilata dagli stilisti sono “rubate” al look dei ragazzi monitorati proprio quando escono da scuola. Quindi, imporre agli alunni regole di abbigliamento troppo rigorose potrebbe portare sulle passerelle di moda solo una sfilza di grembiuli. Di una tristezza infinita nella loro totale assenza di fantasia.
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