In linea di massima mi considero una persona piuttosto disponibile. Nel senso che se c’è da dare una mano a qualcuno tendo a non tirarmi indietro. E quando mi viene chiesto di impegnarmi in mansioni che non sono di mia competenza, aderisco senza fare storie né sentirmi umiliata.
Questo succede nella mia vita in generale. Più che mai in quella privata. Tant’è che di solito lascio scegliere agli altri ristoranti da prenotare, film da vedere, serate da organizzare e mete da raggiungere per le vacanze.
Se mi comporto così è perché di natura sono portata ad adeguarmi ai desideri altrui senza troppa fatica. Questo non significa, però, che sia sempre alla mercé del prossimo, anzi. Se prendo una decisione perseguo il mio obiettivo tenacemente, pronta ad affrontare eventuali scontri.
Ve ne parlo perché nell’articolo Quel “no” mi ha liberato, su Confidenze in edicola adesso, le intervistate raccontano i momenti di ribellione che hanno dato una svolta alle loro esistenze. E, leggendoli, mi sono accorta che nel corso degli anni anche le mie (rare) prese di posizione si sono rivelate molto importanti.
La prima riguarda il lavoro. Finiti gli studi, mi è stata fatta un’offerta che aveva tutte le carte in regola per portarmi al settimo cielo. Peccato che io, nonostante l’euforia e l’insistenza dei miei genitori, l’abbia rifiutata per tentare di entrare in un giornale.
La decisione ha scatenato il putiferio in famiglia. Al punto che di colpo mi sono stati tagliati i viveri con questa spiegazione: «Se preferisci dare un calcio a un’assunzione sicura per inseguire sogni strampalati, impara cosa vuol dire guadagnarsi la pagnotta senza avere le spalle coperte».
Ammetto che sul momento mi sono chiesta se non fossi davvero una scellerata e una minima ho tentennato. Poi, però, mi sono accorta che durante la gavetta mi alzavo alla mattina felice come una Pasqua. E ansiosa di correre in redazione, nonostante non ricevessi lo straccio di uno stipendio.
D’altronde, a cosa mi sarebbe servito visto che quando tornavo a casa ero talmente stravolta da non avere neanche la forza di andarmi a bere qualcosa con gli amici?
Non voglio fare un racconto da piccola fiammiferaia. Innanzitutto, perché la famiglia non mi foraggiava più, ma non mi ha certo sbattuta in mezzo a una strada. E poi, perché all’improvviso è arrivato il mio momento: sono stata contattata e assunta in un’importante casa editrice. Ho potuto sostenere l’esame di Stato per diventare giornalista. E finalmente ho realizzato il mio desiderio: essere remunerata per scrivere. Una vera pacchia.
Pensandoci bene, anche il secondo “no” l’ho detto alla marmotta e al babbut. Quando hanno cercato di distogliermi dal (secondo loro) malsano proponimento di sposarmi in fretta e furia con un tipo incontrato soltanto due mesi prima.
L’idea dei miei genitori era che fossi troppo giovane per convolare a nozze. In più, c’era un’aggravante: volevo farlo con un totale sconosciuto venuto dal nulla, favoleggiando il progetto di mettere subito al mondo due simpatici bambini.
Quella volta, a dare fuori di matto in modo che definirei elegantemente “particolare” è stata la mamma. Talmente decisa a distogliermi dalle mie intenzioni che è riuscita a obbligare il papà a tentare di farmi ragionare.
Per farla breve, anche in quel caso ho detto “no”. Per dire invece “sì” a colui che in effetti è diventato il padre del nostro primo figlio a meno di un anno di distanza dall’incontro galeotto. E, 14 mesi dopo, del secondo.
Poi, è vero, ci siamo separati. Ma è successo dopo 15 bellissimi anni insieme. E se il nostro matrimonio è durato quattro in più rispetto a quello dei coniugi Di Giorgio, ecco la prova che nel settembre 1988 non avevo fatto una madornale cazzata.
La mia esperienza personale, insomma, mi ha insegnato che nelle quisquilie va benissimo farsi trascinare. E poiché cenare in un ristorante cinese o in una trattoria toscana non fa la differenza, mi fa piacere lasciare scegliere agli altri.
Tutto cambia, invece, nelle cose davvero importanti. Per le quali trovo indispensabile battersi senza guardare in faccia a niente e nessuno. Perché, alla fine, gli artefici della nostra vita siamo noi. E solo noi.
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