Sono un artista, mi trovi nelle piazze al centro della scena, a giocare con un cerco in fiamme, a fare acrobazie e dispensare sorrisi. Il mio lavoro è una passione fatta di gioco, disciplina e allegria. E non lo cambierei con nessun altro
Storia vera di Django Guerzoni raccolta da Marco Angilletti
Ti capiterà di passeggiare nella via centralissima di una città e notare da lontano un gruppo di persone fare capannello. Le vedrai tutte puntare gli occhi nella stessa direzione, tra sguardi prima impensieriti, poi distesi e infine sorridenti. Sentirai grosse risate e cori di incitamento. Riconoscerai lo stupore dei bambini, alcuni seduti a terra, altri in piedi davanti ai genitori. Saranno le loro bocche spalancate a catturare la tua attenzione e ti avvicinerai in preda alla curiosità. Una musica di sottofondo allieterà ogni tuo passo, le mani incalzeranno quel ritmo, finché non sentirai partire gli applausi. Alla fine, timidamente, entrerai anche tu in quella mezzaluna di giovani e meno giovani.
Mi troverai lì, al centro della scena, a giocare con il fuoco, fare acrobazie e dispensare sorrisi. Sarò lì per ricordare anche a te che la strada non è soltanto il regno dei mendicanti e dei vagabondi, ma è anche quello degli artisti come me.
Mi chiamo Django e già il mio nome anticipa tutta la particolarità del mio percorso. I miei genitori lo avevano scelto ispirandosi a un famoso chitarrista jazz.
Sono nato nel piacentino e cresciuto in provincia di Pavia, ma oggi sono abitante di tante terre, quelle che percorro e vivo con il mio lavoro da artista di strada.
Sin da piccolo, ogni volta che vedevo degli acrobati le mie pupille si illuminavano come fari. Ero attratto da tutto ciò che realizzava incanto attraverso il gioco.
Nei tanti pomeriggi trascorsi con gli amici delle scuole superiori in una giocoleria del quartiere, fantasticavo su cosa avrei potuto realizzare io da grande attraverso quell’arte così insolita eppure tanto attraente.
Certo, tra l’assistere a uno spettacolo e realizzarlo c’è una gran bella differenza. Da un lato un’innata sensibilità mista a timidezza, dall’altro probabilmente anche un’autostima su cui ancora dovevo lavorare, fatto sta che più volte ho pensato di non farcela, ma alla fine ho realizzato il mio sogno con non pochi sacrifici.
Perché dietro a un artista di strada non c’è un povero squattrinato o pelandrone che cerca di tirare a campare improvvisando due o tre numeri. È un lavoro come tutti gli altri, a cui si associano tanti sforzi, costante preparazione e studi sia teorici che pratici.
Se guardi un clown e riesci a vedere soltanto un naso rosso, sei ben lontano da tutto l’universo adrenalinico che ci sta dietro.
L’ho imparato da Eddy Mirabella ed Elisabetta Cavana, una coppia che ha fatto del teatro di strada la sua ragione di vita. Hanno trasmesso anche ai figli la stessa passione e ora sono una famiglia di saltimbanchi. Ho avuto la fortuna di essere contaminato dalla loro bravura e dal loro garbo, perché li ho avuti a lungo come vicini di casa. Il “Teatro Viaggiante” – così si chiama il loro progetto che da oltre 25 anni anima le strade di comicità e spettacolo – mi ha preso per mano e mi ha incantato.
Prima del diploma, mi allenavo con loro e mi capitava di partecipare ai loro spettacoli. Eddy ne costruì uno su misura per me e per un mio amico. A soli sedici anni andammo a Cattolica a realizzarlo. Mi sentivo vivo, carico di cose belle da condividere con il pubblico, riuscivo a sentire la mia anima ogni volta che quella magia si concretizzava tra le mie mani.
Concluso il liceo artistico, non avevo voglia di stare ancora sui libri e il tempo trascorso con Eddy e Betta mi confermava che si poteva vivere anche di spettacolo. Furono loro a consigliarmi un percorso di studio legato al circo e alla giocoleria.
Presi tutti i risparmi che avevo e optai per la scuola “Philip Radice” a Torino. Mi aveva colpito molto perché l’impronta di quei percorsi formativi era ispirata a teorie e pratiche del teatro fisico della Scuola internazionale di Jacques Lecoq, nel decimo arrondissement di Parigi. Era davvero quello il tipo di formazione che volevo per me, un percorso in cui la disciplina sportiva si sposa con l’arte teatrale. Tutto nasce dalla comunicazione corporea: il fisico e le emozioni prima di tutto, poi al massimo inserisci le parole.
Ogni ora trascorsa a scuola riusciva a garantirmi nuove prospettive: gli studi sulle maschere interpretative, gli allenamenti fisici, gli approfondimenti sulla figura del clown e sull’arte teatrale. Finalmente prendevo contatto con quel mondo a cui ho sempre sentito di appartenere.
La scuola prevedeva una durata di tre anni e nei periodi di pausa estiva ne approfittavo per trasformare in attività pratiche tutto ciò che imparavo. I primi due anni, insieme alla mia ragazza dell’epoca, ideammo uno show e iniziammo a portarlo in giro per le piazze e le strade. Io, lei e la nostra tenda. È stato come un continuo sporcarsi sentendosi sempre più puliti. La contaminazione che si generava ogni sera, di fronte agli occhi degli spettatori, nutriva i semi del mio futuro.
Il terzo anno, invece, portai in strada uno spettacolo totalmente da solo, con cui arrivai addirittura a Berlino. Una vera sfida con il Django uomo, al di là del Django artista. Non era affatto facile, lontano da tutti e da tutto, io e la strada. Mi occupavo di giocoleria al semaforo. Ci presi così tanto gusto che restai lì da agosto a dicembre.
Passeggiavo per Alexanderplatz o lungo i viali sempre vivaci della Friedrichstraße senza sentirmi straniero. Più ammiravo gli sguardi stupiti della gente, più toccavo con mano la bellezza di ciò che stavo costruendo.
Dopo l’esperienza in Germania, sbarcai a Siracusa e ne approfittai per partecipare alle audizioni per l’Accademia d’arte del dramma antico dove riuscii a entrare come allievo attore; perfezionai il mio bagaglio artistico lavorando con loro per un anno e poi mi trasferii a Palermo.
La bella città sicula fondata dai Fenici fu in grado di donarmi così tanta pace interiore che restai lì tre anni, presentando i miei spettacoli anche nei mesi invernali. Qualcuno ha scritto che Palermo è come una cipolla: ogni volta che togli uno strato ne resta un altro da sbucciare ed è questo che mi ha colpito. L’enorme patrimonio artistico e culturale della città ti tiene vivo e ti dona respiro anche quando stai annaspando.
A Palermo trovai terreno fertile per il mio lavoro: il Sud risponde in maniera sempre calorosa quando si trova al cospetto degli artisti di strada, probabilmente perché da quelle parti sono meno frequenti.
Di quel periodo ricordo anche le lotte per difendere la nostra professione. Alcune leggi anti-movida ci impedivano di fare spettacoli e insieme a diversi colleghi organizzammo un fronte di resistenza: una parata con i trampolieri che portavano una bara in corteo e uno stuolo di artisti al seguito, il funerale dell’arte di strada. Quando arrivammo nella grande piazza del Teatro Massimo, i palermitani e i tanti turisti si unirono a noi in quell’umile e pacifica battaglia. Volevano spegnere i sorrisi della gente e non ci sono riusciti.
Ho vissuto anni di lavoro e studio insieme, sperimentando sempre ricerca e innovazione. Di tanto in tanto con la mia arte ho varcato i confini nazionali per partecipare a qualche festival, tra cui uno a Zurigo e uno in Romania sul teatro di avanguardia.
Nel tempo è cambiato anche il mio rapporto con il fuoco: se all’inizio mi destreggiavo con un timido hula hoop con i punzoni infuocati, poi mi feci costruire un vero e proprio cerchio da infiammare e oggi tutti i miei spettacoli di strada si concludono con un numero con il fuoco.
È uno di quegli strumenti capaci di tenere il pubblico con il fiato sospeso. Tanta concentrazione e una mole di allenamento non indifferente, ma quando porti a compimento un numero del genere c’è sempre un’ovazione che ti ripaga.
Quanta strada ho percorso finora e quanta ancora ne immagino. Oggi ho 33 anni e posso dire di essere soddisfatto di ciò che sono diventato. I miei passi e il mio cuore, zingari per natura, si nutrono delle emozioni del vortice energetico che si crea tra pubblico e artista.
Viaggio a bordo del mio furgone camperizzato e la mia vita ormai è un continuo approdare in porti diversi; ogni volta che getto l’ancora è perché incontro un pubblico caloroso, capace di accogliermi come un dono venuto da chissà dove.
Talvolta non è facile. Esibirsi in strada non è come mettersi dietro una scrivania a compilare un documento, c’è la sfera emotiva con cui devi fare i conti. Appoggi su un marciapiede la valigia che porti dietro, la apri per togliere fuori gli attrezzi del mestiere e inizia la magia.
Lo spettacolo del fuoco è qualcosa di attraente, ma per attirare il pubblico devi fare ridere, devi coinvolgere i volontari, devi avere una super motivazione. Predisposizione spirituale, tecniche specifiche e regole: questo è il mantra.
Devi stare attento a come reagiscono gli spettatori e a calibrare bene le sfide, affrontare gli inconvenienti che non mancano e in particolare devi parlare alle persone come se le conoscessi. È un modo per sentirti parte di una comunità. Finché non concludi lo spettacolo, chiedi il cappello e misuri il tuo talento in base alla loro generosità.
È tutto molto estemporaneo, un’esibizione non sarà mai la copia identica di quella realizzata il giorno prima. E ti capita perfino di cambiare l’umore di chi viene a guardarti, come quella volta a Palermo in cui un ragazzo si è avvicinato e mi ha detto: «Ero uscito da solo, parecchio triste. Poi ti ho incontrato e mi hai svoltato la serata».
In fondo chi fa il mio lavoro è un dispensatore di buonumore. Io stesso cerco di trasmettere un messaggio di libertà, l’idea che nella vita si può essere davvero ciò che si desidera. Che tu possa scegliere di diventare un grande imprenditore o un artista di strada, a renderti una persona appagata è la bellezza di una scelta coerente.
La mia l’ho fatta. Un lavoro che è una passione, dove il gioco si mescola a disciplina e allegria. E non può dirsi questo il mestiere più entusiasmante del mondo?
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