Appassionata di mare e di montagna, non ho mai amato particolarmente la campagna. Non perché la trovi brutta, anzi: con il suo verde lussureggiante e le pianure mosse da dolci rilievi, offre spesso scenari spettacolari. Il problema, però, è che dopo qualche ora che sono lì, immersa nella natura senza la possibilità di farmi una nuotata o una sciatona, inizio ad annoiarmi.
Le cose cambierebbero se avessi qualcosa di cui occuparmi e a cui dedicarmi. Ve ne parlo perché sul numero di Confidenze in edicola adesso, il servizio Delizie dell’orto propone una serie di ricette preparate con le verdure di stagione. E mentre le leggevo, mi ha solleticato l’idea di portare in tavola piatti realizzati con prodotti coltivati da me.
Non ho mai avuto uno spirito bucolico ma, complice un fidanzato (meraviglioso) con l’animo del contadino, da qualche tempo sto scoprendo quanto sia davvero migliore il sapore della verdura raccolta con le proprie mani (le sue) rispetto a quella comprata (da me) al supermercato. Se a questo aggiungete che se ho degli obiettivi mi piace rimboccarmi le maniche, ecco tracciato un inedito ritratto dell’Albie: rigorosamente in salopette, armata di zappetta, pronta a dissodare il suo orto personale, seminarlo, concimarlo e bagnarlo, in attesa di veder crescere i primi prodotti.
Detta così, suona tutto facile. Torno allora con i piedi per terra (la mia nuova ipotetica postazione professionale) e cerco di capire cosa potrebbe succedere se indossassi sul serio i panni dell’agricoltore.
Innanzitutto, supplicherei il venditore di suggerirmi…. no, scusate, di elencarmi con precisione svizzera quali arnesi acquistare per dar vita al kit della contadinella perfetta (io mi orienterei di certo su un rastrello, visto che in tutti i quadri campestri c’è sempre appoggiato da qualche parte, ma poi brancolerei nel buio). Dopodiché, mi presenterei sul luogo di lavoro con il Manuale delle Giovani Marmotte sottobraccio e una gran confusione in testa. Quindi, ligia alle regole, compirei ogni passo indicato dal magico libro per veder spuntare pomodori, melanzane & Co. Infine, mi sdraierei sotto un albero ad aspettare i risultati di tanto impegno.
Però, chissà perché sono convinta che il mio lavoro non mi darebbe gli stessi frutti (cioè, le stesse verdure) delle foto pubblicate sul manuale. Al posto di polpose zucchine, già immagino specie di tubetti rinsecchiti di un verde spento. Invece di carote sgargianti e croccanti, radicette smunte e mollicce. E al posto dei peperoni, mi sa che raccoglierei orribili spugne grinzose degne di essere buttate e non cucinate.
Ma non mi perderei d’animo. Agli amici, infatti, proporrei lo stesso minestroni dalla consistenza dei cibi per cani e insalate dall’aspetto gelatinoso delle alghe, convincendoli a mangiarli perché bio: una definizione very trendy negli ultimi tempi, ma in alcuni casi utilizzata in modo disonesto per propinare merce bacata a prezzi stratosferici.
Tra i suddetti casi, ci sarebbe anche il mio. Ma tranqui: se dovesse scattare l’invito a cena, sappiate che nel piatto vi schiafferei sì, ricette dall’aspetto improponibile. Ma assolutamente bio (oltre agli attrezzi non conosco neanche i diserbanti, quindi non li userei) e completamente gratis. Perché se davvero vi azzardereste ad assaggiarle, sarei io a pagarvi. Per sdebitarmi della fiducia concessami.
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