Se la montagna diventa una cura è un articolo su Confidenze in edicola adesso che racconta quanto avere un traguardo da raggiungere sia uno sprone per sentirsi meglio.
Il servizio, in realtà, parla degli effetti benefici di arrivare in vetta per le persone affette da patologie importanti. Questo non esclude, però, che prefiggersi un obiettivo non sia una buona strategia anche per chi ha la fortuna di essere sano come un pesce, ma vuole lo stesso trasformare le incombenze in prove delle proprie capacità. E nell’occasione per accrescere l’autostima.
Regina in questa doppia attività mi sento io, sempre desiderosa di dare a qualsiasi impegno (piacevole o rognoso che sia) la forma della sfida.
Cerco di spiegarmi. Di carattere ansiosissimo, sin da giovane mi sono trovata troppo spesso nella condizione di pensare che non ce l’avrei fatta: a studiare per l’interrogazione del giorno dopo. Sostenere un esame (nonostante in vita mia abbia affrontato solo quelli delle varie patenti e per diventare giornalista professionista). Coincidere vita privata e lavorativa.
Le stesse paure mi coglievano (e mi colgono tutt’ora) anche nelle stupidaggini: essere pronta per uscire di casa nei tempi giusti. Scegliere un regalo gradito in vista di un compleanno. Preparare una cena “commestibile” per gli amici che invito.
Insomma, soggetta atavicamente alle paranoie su ogni fronte, per sopravvivere mi sono inventata l’escamotage di dare alle mie attività la parvenza di una gara. Nella quale l’unico avversario da battere sono io.
La tattica, in effetti, dà risultati abbastanza soddisfacenti. Per due motivi.
Il primo: pur avvicinandomi a passi da gigante ai 60 anni, mi sembra chiaro che nel profondo del mio animo esista ancora un lato infantile, legato al desiderio di non smettere mai di giocare.
Questo mi spinge, appunto, a vivere tutto come una specie di gara (il più bello dei giochi). Che, in quanto tale, richiede un training e un premio.
Così, quotidianamente annoto in agenda le incombenze, considerando il gesto l’inizio di un intenso allenamento. Poi, se non le sbrigo tutte, le riporto sulle pagine dei giorni successivi come un severo monito a non arrendermi.
E nel momento in cui, finalmente, riesco a cancellare le voci, mi sento gonfia di euforia, come se stessi per salire su un meritatissimo podio.
Il secondo motivo per cui cerco di trasformare la vita in una continua competizione è l’intenzione di caricarmi di adrenalina, forze ed entusiasmo. Soprattutto se devo affrontare qualcosa di noioso, faticoso o che, comunque, non ho proprio voglia di fare.
Ecco, allora, che mi creo l’obbligo di non accampare scuse per rimandare, mi carico come una pila. E, sempre con gli occhi sulla preziosa agenda (il mio doping), ripeto come un mantra: «Non c’è niente di impossibile, non mollare».
Insomma, vivo l’incombenza come una finale del torneo più importante del mondo. Con tutto il suo corollario: il traguardo da raggiungere, il pubblico con il fiato in gola, la famiglia che spera non la deluda.
A quel punto, è ovvio che non possa tirarmi indietro. Così, mi metto di buzzo buono e, in conto, aggiungo l’eventualità di contrattempi (gli equivalenti, in campo sportivo, di una storta per il maratoneta o un ginocchio in fiamme per un calciatore). In altre parole: mi do gli obiettivi da guadagnare a ogni costo.
Lo so: questo atteggiamento nei confronti della vita è un po’ (forse troppo) paranoico. Ma, come dicevo all’inizio, mi aiuta a mettere sempre alla prova le mie capacità. Sfida indispensabile per accrescere l’autostima e non sentirmi un’impareggiabile chiavica.
Sì, perché ci sono periodi complicati in cui mi sembra proprio di non farcela a far fronte a tutto. Per fortuna, questa strategia mi insegna che nulla è impossibile. E, a volte, mi sprona addirittura a puntare a nuovi record.
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