Sono nata negli anni ’60, quando la maggior parte delle signorine in età da marito aspettavano di accalappiarne uno. Per poi dare il via a una vita fatta di bambini da crescere e consorte da accudire, rigorosamente a spese del capo famiglia.
Già la definizione è odiosa. Per fortuna, però, ormai abbastanza vetusta. Perché se è tristemente vero che chi gestisce i soldi di solito si sente legittimato a comandare, oggi non è più un’esclusiva maschile. Tant’è che le donne indipendenti sono moltissime. E in continua crescita.
Le prime a cercare soddisfazioni economiche e professionali fuori dalle mura domestiche senza destare i pettegolezzi al vetriolo dei vicini («Sai, deve lavorare poverina») sono più o meno le mie coetanee (ho 59 anni). Infatti, a scuola ci dicevamo cosa ci sarebbe piaciuto fare da grandi, lasciando intuire che non contemplavamo certo un futuro da massaie.
Così è stato per quasi tutte noi compagne di banchi, il che è una bella conquista. Del passato, però, nel genere femminile è comunque rimasto un po’ di imbarazzo quando si parla di denaro.
A confermarlo ci sono le testimonianze raccolte nell’articolo Soldi & lavoro, ancora un tabù (su Confidenze in edicola adesso), in cui si discute di stipendi e possibilità di carriera più bassi rispetto agli uomini. E della nostra difficoltà nel trattare apertamente le questioni venali come fanno con nonchalance loro.
D’altronde, come darci torto? Arriviamo da un retaggio culturale che ci inculcava quanto fosse volgare per le signore il solo nominare la pecunia. Anche se quando ero giovane io vivevamo nel mondo delle enormi contraddizioni.
A casa mia, per esempio, il babbut pensava che le donne dovessero stare lontane mille miglia da qualsiasi tipo di faccenda economica. Nel frattempo, però, si preoccupava che io crescessi con il senso dell’indipendenza innato.
Nella totale confusione, sono diventata quello che sono: una persona che lavora, indipendente e ferratissima sugli equilibri tra entrate e uscite. Insomma, una specie di ragioniere in gonnella, libera di scegliere ciò che più mi aggrada senza aver bisogno di elemosinare niente a nessuno, scendere a compromessi, chiedere.
Ma non solo. Perché nel profondo dell’Albie c’è anche una signora di mezza età felice quando al ristorante vede gli uomini dividere il conto inserendo le eventuali single femmine del tavolo. E conquistata da un atteggiamento maschile economicamente protettivo in generale nei confronti del gentil sesso.
Non a caso, ai miei figli (ho due maschi) ho sempre insegnato la galanteria di portafoglio, convinta che un uomo capace di mettervi mano abbia comunque una marcia in più. Soprattutto perché il costo di un aperitivo o una cena non sposta nessuno. Non lui, visto che non credo viva ogni sera al bar o al ristorante. Ma neppure lei: qualunque siano le sue possibilità, infatti, un conto dovrebbe farcela a saldarlo. Però, sapere che c’è qualcuno a pensarci è molto cavalleresco.
Ecco il motivo per cui se esco con un maschio mi auguro vivamente di non scucire un euro: faccio ancora parte della vecchia scuola anni ’60 che vuole sia l’uomo pagare. Dopodiché, gli lascio comunque decidere dove portarmi, perché possa gestirsi come meglio (economicamente) crede.
Infatti, soprattutto al primo appuntamento non vorrei mai sentirmi chiedere «Dove vuoi andare?». Domanda assurda, poiché non ho idea di quanto il tipo sia disposto a investire sulla serata. Una cifra da chef stellato o due sghei da fast food? A lui l’onere della scelta. A me, invece, quello di farmi un’idea del soggetto. Troppo venale? Non per chi ha la mia età.
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