storia vera di Mario Kelemina raccolta da Anna Magli
Amo la natura e gli animali, di terra e di mare, nessuno escluso. Ma aquile, falchi, gufi per me sono la passione più autentica. A loro ho dedicato un centro che assorbe tutte le mie energie
Sono nato in pianura e vissuto in montagna, dove ho imparato ad amare gli animali e la natura incontaminata dove sono in libertà. Fin da bambino i miei genitori, entrambi scalatori, mi portavano con loro. Già a quel tempo osservavo la fauna tipica della montagna e ho sviluppato verso di essa rispetto e ammirazione. Quando abitavamo a Trieste, in un condominio, non c’è stato periodo in cui io non avessi in casa un animale: fosse solo un pesciolino, una tartaruga o un gatto, c’è sempre stato un animale accanto a me, che ha accompagnato la mia crescita. Come se non bastasse, portavo a casa tutti quelli che trovavo abbandonati per strada, per la disperazione di mia madre. Amo anche il mare, i pesci e i coralli: ho conseguito diversi brevetti fino a quello professionale Divemaster di guida subacquea, soggiornando spesso sul Mar Rosso e sono stato proprietario di un negozio di animali dove tenevamo anche tanti tipi di rettili. Non c’è nessun animale di cielo, mare o terra che io non ami. Ma i rapaci sono un’altra cosa. Per i rapaci la passione nasce dalla mia infanzia, quando da bambino andavo dai miei zii in campagna e li osservavo cacciare con la civetta come richiamo per le allodole: e poi c’erano i barbagianni che mi incantavo a osservare dentro i fienili dove andavano a dormire.
Il mio primo rapace è stato un gufo reale, Artù, e dopo non mi sono più fermato. Ho cominciato a tenerne altri fino a quando, qualche anno fa, mi sono trovato ad averne troppi per poterla definire solo una passione personale. I costi di mantenimento e la loro cura infatti mi stavano impegnando quasi tutto il tempo della giornata. Così ho optato per la divulgazione di quello che avevo appreso in tanti anni e con un po’ di incoscienza, visto anche la mia non giovane età, ho messo in piedi questa attività, scegliendo come luogo dove accasarmi prima l’Alta Badia, poi Falcade e infine San Vigilio di Marebbe, il paese di cui è originaria la mia compagna, Carmen. Prima di assumermi questa responsabilità, proprio per una forma di rispetto verso questi animali che amo tanto, mi sono preparato e formato per essere certo di accudirli nel modo migliore: perché la passione non basta, per tenere un rapace bisogna conoscere bene le loro abitudini e le loro esigenze. La falconeria non è, come molti pensano, tenere un rapace, farlo volare e averne cura: la falconeria è allevare un rapace per andare a caccia con lui. E questo fin dall’inizio dei tempi, da quando è nata la falconeria, presumibilmente in Medio Oriente e poi in Europa al tempo di Federico II di Svevia. Quello che io faccio nel mio centro è didattica verso chi ama questi animali per renderli partecipi del loro mondo, ma è anche ricerca e progettualità insieme all’Università di Padova.
La mia missione è spiegare alle persone chi sono i rapaci nati qui, la loro vita, il carattere, le abitudini. Nessun esemplare nato e vissuto in natura, anche se ferito, può essere detenuto in un centro. Anche perché sono animali selvatici, schivi all’uomo e una volta guariti devono essere restituiti al loro mondo. Quando questo non è possibile, a causa di ferite che, anche se guarite, non permettono di sopravvivere in natura, il rapace può essere mantenuto ma non esposto, perché subisce forti stress continui alla presenza di esseri umani. Gli animali selvatici non sarebbero per etica esponibili, solo quelli nati in cattività lo sono. I nostri rapaci sono tutti certificati, la loro nascita, la provenienza, il loro vissuto sono documentati e tutto sotto la supervisione del Corpo forestale. Ognuno di loro ha un certificato che ne racconta la storia, un po’ come un pedigree per gli altri animali, e che corrisponde all’anello o al microchip che indossano. Chi viene qui al centro può usufruire di una visita didattica ai 60 rapaci, civette, assioli, gufi reali, gufo delle nevi, aquile, poiane, barbagianni di ogni tipo provenienza.
Da appassionato non faccio fatica a capire il grande interesse e curiosità che c’è nei confronti di questi animali. Mi piace incontrare persone che come me hanno questa passione. Mi è difficile restare dentro il ruolo didattico e divulgativo e molto spesso mi ritrovo a confrontarmi con loro come un amico che racconta qualcosa che interessa entrambi; parlo delle diverse famiglie di appartenenza, distinguendo i notturni dai diurni, spiego cosa significano certi atteggiamenti, il loro modo di vedere e di sentire. Fugo dubbi e demolisco superstizioni o leggende metropolitane. È tutto un mondo da scoprire, ma anche da rendere accessibile perché il rapace ha sempre esercitato sull’uomo un fascino particolare.
I filmati che girano su Internet, con rapaci ambientati nella vita familiare, magari insieme ad altri animali domestici, sono, secondo il mio modesto parere, delle forzature. Si vedono questi animali selvatici che sembrano godere delle carezze umane e che, a loro volta, paiono manifestare atteggiamenti affettuosi, soprattutto nel caso di civette e assioli. Attenzione però, sono animali che hanno subito un imprinting, hanno sviluppato un rapporto con l’essere umano che li ha cresciuti, praticamente dalla schiusa dell’uovo. Ma non facciamoci ingannare, non è un loro atteggiamento naturale, bensì un legame che si crea in funzione del fatto che l’uomo è quello che procura cibo perché i rapaci sono animali fondamentalmente anaffettivi senza il senso del tatto che appartiene a noi umani e ai mammiferi domestici. Io ho dato a tutti loro un nome, Anacleto, Merlino, Artù, Oswald, Sibilla… alcuni rispondono al suono della mia voce, altri sono indifferenti. Sono molto delicati, quando qualcuno di loro si ammala o ancora peggio muore io ci sto malissimo. Mi ricambiano solo in funzione del fatto che li ho cresciuti e li nutro.
C’è una cosa che pochi sanno: alcune femmine, imprintate e allevate da me, quando sono nel periodo del richiamo amoroso mi chiamano, mi cercano: pretendono da me cure particolari che in sintesi è un messaggio per dirmi “Tu sei il compagno di vita che deve procurarmi il cibo!”. Anche i gesti sono importanti. Ho imparato per esempio che tendere una mano verso di loro, senza che ci sia nessuna offerta di cibo, non è interpretato come un gesto di affetto. Se invece, e lo faccio spesso, io avvicino il mio becco, cioè il naso, al loro, questo gesto viene accettato. Amo moltissimo i miei rapaci e sono felice di aver dedicato loro una parte significativa della mia vita.
Racconto spesso della terribile tempesta che la notte del 26 ottobre 2018 ha sconvolto le montagne del Veneto e del Trentino. Quella notte io ero con loro: davanti al vento che sradicava piante e distruggeva i tetti delle voliere salivo cercando di risistemare per proteggerli dalla pioggia intensa. Senza neanche rendermene conto, ho continuato da solo tutta la notte, per niente preoccupato della mia incolumità fisica. Alcuni di loro sono morti quella notte terribile, ma ho deciso di ricominciare di nuovo qui a San Vigilio, in questo scenario incantato che li fa sentire nel loro ambiente naturale: sono fiero di quello che ho costruito per loro, questo centro che tra poco si trasferirà in un bosco e dove le voliere saranno sistemate fra gli alberi e dove costruiremo un’ arena di volo per farli avvicinare al pubblico in volo libero e poterli ammirare più da vicino. Sempre con il rispetto e la delicatezza che la loro dignità impone. Se fra di loro c’è qualcuno che preferisco? No, li sento tutti come creature che amo allo stesso modo, anche se con qualcuno di loro si è stabilito un rapporto più stretto.
Li amo tutti incondizionatamente, mi piace scoprire giorno dopo giorno che il nostro rapporto si fa sempre più intimo, che si fidano di me, e che mi cercano, fosse solo per il fatto che si aspettano che io procuri loro il cibo. Una parola in più per uno di loro però la vorrei spendere: lui, il gufo bianco delle nevi che è arrivato da poco. Lo chiamano “Civetta delle nevi”, pensando ad Edvige la civetta di Harry Potter,. L’aspetto inganna: ha la testa tonda, non ha i pennacchi tipici del gufo eppure è proprio un gufo. Come hanno fatto a scoprirlo? Dopo varie discussioni fra esperti hanno testato il dna e si sono resi conto che non fa parte della famiglia delle civette, ma di quella dei gufi e in effetti basta guardare come è grande rispetto a una normale civetta, per rendersene conto. Invece Skirnir, nome derivato dalla mitologia nordica che significa Brillante, Luminoso, è un Bubo Scandiacus, un gufo nordico appunto. La sua storia è commovente, molto particolare. È arrivato qui da adulto solo qualche mese fa. Mi sono recato a prenderlo vicino a Stoccarda da un collega tedesco che non poteva più tenerlo perché il suo centro non era l’ambiente adatto e nei suoi voli liberi veniva continuamente disturbato dai corvi che vivono in quell’area. Qui Skirnir ha trovato le nostre montagne e tanta neve che sono quelle del suo ambiente naturale. Mi piace pensare che ognuna delle persone che viene a trovarci qui al parco trovi soddisfazione ammirando tutta questa bellezza, scoprendo la maestosità di questi animali e che possa imparare qualche cosa di più su di loro, che sono a tutti gli effetti misteriosi e intriganti, con una grande dignità. ●
P.S: Chi volesse fare un atto d’amore verso la natura e magari regalare alla dolce metà per San Valentino un pensiero diverso dal solito, può trovare qui le informazioni per adottare uno dei rapaci di San Vigilio.
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