Angela è una giovane donna che viene nel mio studio dichiarando difficoltà digestive e una vaga stanchezza. Ascolta attenta quello che le spiego sul cibo e interviene con domande serie e acute. Solo alla fine del consulto, di fronte al piano nutrizionale che le propongo, perde l’aplomb, sgrana gli occhi e dice, sinceramente stupefatta: «Ma io non posso mangiare tutte queste cose! E concedermi persino un dolce ogni tanto!».
L’alimentazione è indubbiamente la leva su cui insisto di più nella mia pratica professionale: scegliere con coscienza come e cosa mangiare equivale infatti a porsi in una specie di cabina di regia, da cui si possono lanciare potenti segnali al corpo e alla mente per funzionare al meglio.
C’è però un confine netto tra la ricerca di un’alimentazione salutare e l’attenzione ossessiva al cibo, che deve per forza essere sano – concetto che peraltro si presta a molteplici interpretazioni – pena l’astinenza. Un conto è assumersi la responsabilità del proprio benessere grazie a un orientamento alimentare chiaro ma flessibile (se ci si nutre abitualmente in modo accorto, lo sgarro occasionale ci sta). Altro conto è abbracciare un estremismo che non ammette deroghe e sfiora la patologia.
Ortoressia (dal greco orthos, che significa corretto, e orexis, appetito) è il termine che il medico americano Steven Bratman ha coniato una ventina di anni fa per definire l’esasperata cura degli aspetti salutistici dell’alimentazione. Un fenomeno già allora ben evidente nella popolazione e oggi in rapida crescita.
L’ortoressia presenta tratti di rigidità e caratteristiche di preoccupazione nell’approccio al cibo che l’avvicinano pericolosamente ad altre forme di disagio alimentare, quali la più nota anoressia nervosa. Nasce come volontà di mangiare in modo sano, per poi trasformarsi nell’impulso a eliminare completamente un’ampia serie di sostanze, quando non intere categorie alimentari (che si tratti dei cibi industriali, degli alimenti non biologici, della carne, del latte e dei suoi derivati, delle proteine animali in genere, piuttosto che del frumento e degli altri cereali con glutine), ritenute inadatte o addirittura nocive, finché la dieta si riduce a una rosa sparuta di cibi ammessi.
Non è difficile immaginare come questo atteggiamento, già poco equilibrato di per sé, finisca anche per trasformarsi spesso in un attentato alla salute: il rischio di privarsi di nutrienti essenziali, con carenze anche gravi, è reale. Nello stesso tempo, la lotta agli alimenti “cattivi” conduce pian piano all’isolamento sociale: le cene al ristorante in genere diventano una tortura perché è difficile trovare cibi conformi al proprio ideale, quelle a casa di amici vengono immancabilmente rifiutate (a meno che naturalmente non si tratti di amici anche loro ortoressici) e si finisce per consumare i pasti in solitudine. E quella volta che si dovesse mai cedere alla tentazione di un gelato, delle patatine o di qualsiasi altro alimento ritenuto proibito ecco che scatterebbero pesanti sensi di colpa e comportamenti autopersecutori.
In conclusione, ciò che vuole porsi come salutare, almeno nelle sue premesse teoriche, viene clamorosamente sconfessato sul piano pratico.
Come in tante altre questioni umane, anche in questo caso il discrimine tra funzionale e disfunzionale è segnato dalla moderazione e dal buon senso. Le sane abitudini alimentari costituiscono uno strumento prezioso con cui amplificare le proprie potenzialità di salute e il proprio potere di autoguarigione. Diverso è mortificare il corpo e lo spirito e prescindere dalle componenti di piacere, convivialità e scelta che per l’uomo sono da sempre, culturalmente e socialmente, associate al mangiare.
Chi si obbliga a una selezione rigida e ipercontrollata dei cibi rischia di scivolare nel fanatismo, che con la salute ha poco a che fare. E con l’amore di sé ancora meno.
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