“Signora, purtroppo devo darle una brutta notizia: lei è malata”. “Non mi dica, dottore! E di cosa soffro?” “Ha la cellulite”. “Mio Dio… La cellulite! E pensare che mi sentivo così bene… Ma, mi scusi… La cellulite è una malattia?” “Certo! Non lo sapeva? Lo dicono anche negli spot in televisione!”
È’ proprio uno spot che mi ha fornito lo spunto per questo ipotetico, surreale dialogo tra medico e paziente. Si tratta della pubblicità di un medicinale anticellulite da applicare su cosce e glutei, in onda da tempo su tutte le emittenti televisive. Esordisce appunto con la frase, vagamente allarmante (un monito nel caso foste così superficiali da non aver finora visto sotto questa luce la pelle a buccia d’arancia…), che “La cellulite è una malattia”. E siccome almeno un filo di cellulite non si nega pressoché a nessuna donna, siete tutte malate. Dunque bisognose di farmaci, come, guarda caso, lo è quello in questione. Mica male come strategia di vendita, no?
La medicalizzazione della vita è un problema reale, sentito e analizzato a diversi livelli. La tattica commerciale di proporre farmaci per presunte malattie a presunti malati (esattamente l’opposto di ciò che dovrebbe essere, se ci pensate: esiste una patologia, ingegniamoci per scoprire il farmaco che la cura; no, ecco qui un prodotto da piazzare, non resta che individuare l’ambito in cui collocarlo e, se non si trova, crearlo con studiate operazioni di marketing) ha persino un nome: si chiama disease mongering, mercificazione della malattia.
Una strategia perseguita anche mediante manipolazioni linguistiche. Se “cellulite” presenta connotati di relativa inoffensività e spaventa solo in vista della prova-costume, provate invece a sentire come suona minaccioso “panniculopatia edematofibrosclerotica”, il termine medico che da qualche anno è stato coniato ad hoc per la pelle a buccia d’arancia. “Ho la panniculopatia edematofibrosclerotica”: tutto un altro effetto…
La pratica di “inventare” nuove malattie, di elevare allo status di patologia una semplice condizione, una normale fase della vita o tutt’al più un fattore di rischio, non nasce oggi. Già nel 2002 il British Medical Journal, una delle riviste scientifiche più blasonate al mondo, ospitava sulle sue pagine un articolo che identificava ben 200 “non-malattie”.
Tra le tante situazioni che da allora molti ricercatori hanno bollato come finte patologie si ritrovano, oltre alla cellulite, l’invecchiamento, le borse sotto gli occhi, la calvizie, la maggior parte dei disturbi legati alla gravidanza, la menopausa, l’osteoporosi, l’iperattività infantile, il colesterolo alto, la tristezza, il deficit di attenzione, la scarsa libido femminile, la timidezza.
Bisogna constatare che sembra essersi davvero realizzato il desiderio che Henry Gadsen espresse in un’intervista di ormai quasi quarant’anni fa, quando era a capo della multinazionale farmaceutica Merck: “Il nostro sogno è di produrre farmaci per le persone sane”.
Stare sempre meglio è un obiettivo eccellente, chiunque voglia aumentare la propria qualità di vita va sostenuto ed è decisamente da assecondare la volontà di mettere in atto tutto ciò che riteniamo opportuno per gestire al meglio e possibilmente risolvere i nostri inestetismi, fastidi e malesseri, che riguardino il corpo o la psiche.
Non facciamoci però convincere di essere malati quando non lo siamo. Non lasciamoci trattare semplicemente da consumatori che generano profitto economico, soprattutto quando si parla di salute. E impariamo a riconoscere quando il fine è vendere invece che curare.
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