È il ricordo tangibile della mia famiglia: mio padre l’aveva con sé quando si trasferì al nord e mia sorella ci teneva dentro i suoi giochi. Ogni oggetto è un capitolo della nostra vita, stravolta dal coronavirus. Ora spetta me trovare la forza di scriverne uno nuovo
Storia vera di Andrea v. Raccolta da Simona Maria Corvese
In un pomeriggio di primavera esco da un condominio della periferia milanese con un’anacronistica valigia in mano. Sembro un emigrante d’altri tempi, come lo è stato mio padre molti anni fa. Era venuto dal sud Italia con questa valigia in mano per trovare lavoro e costruirsi un futuro, impossibile nel suo paese d’origine. Lo trovò e fu per tutta la vita un abile falegname. Questa valigia risale agli anni Sessanta ed è il ricordo tangibile della storia della mia famiglia. Mio padre riuscì a crearla, tuttavia la sua fu una vita dura e le cose non andarono come avrebbe voluto. I primi anni di matrimonio furono belli. Il lavoro andava bene e poté addirittura permettersi di far stare a casa mia madre quando nacqui io. Erano gli anni della crescita economica, lui e mia madre appartenevano alla generazione che stava costruendo l’Italia nel dopoguerra. C’era la sensazione che tutto fosse possibile, soprattutto riuscire a plasmare con dignità il proprio futuro.
Quando io avevo cinque anni nacque mia sorella Elisa, una bellissima bambina all’apparenza sana. Crescendo mostrò alcune stranezze, ma noi non capivamo cos’avesse. Mia madre diceva che aveva un carattere originale, ma non era così. A volte si chiudeva in se stessa e diventava impossibile parlarle. A volte dava in escandescenza per un nonnulla. Altre volte si metteva a collezionare oggetti, stipandoli all’inverosimile nella sua stanza. Anche le maestre a scuola avevano capito che c’era qualcosa che non andava, nonostante fosse intelligentissima e avesse sempre ottimi voti. Quando andò in prima media, mia madre si decise a farla vedere da alcuni specialisti. La diagnosi fu un fulmine a ciel sereno: Elisa era schizofrenica.
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