Storia vera di Vittoria raccolta da Barbara Benassi
La cucina illuminata, il tavolo rotondo apparecchiato, la cena pronta e la bottiglia di vino aperta sul tavolo. Una sera come tante in famiglia. È difficile pensare che basterà lo squillo del telefono per renderla diversa, per farle segnare l’inizio di un lungo periodo nero, per consentirle di tracciare sulla sabbia del tempo la linea di demarcazione tra un prima e un dopo. La voce di mia madre nella cornetta è serena, tranquilla. Chiede come stiamo, si informa. Poi all’improvviso me la butta lì così, morbida: «Ho fatto un’ecografia, ti ricordi che mi faceva un po’ male il fegato ultimamente?». «Sì» mi limito a rispondere cauta. «Mi hanno detto di fare degli approfondimenti, vieni con me?». «Sì, intanto leggimi il risultato dell’ecografia». Mia madre esegue. Lo fa controvoglia, lo sento dal tono. Immagino non debba essere semplice in effetti leggere a sua figlia, ad alta voce al telefono, la sua sentenza di morte. È un referto tecnico, preciso, freddo, insindacabile. Sarà quello che mi ripeterà anche il medico, un professorone, al quale chiediamo un consulto, mia madre e io, una settimana dopo. Infatti, mentre lei finge di credere alla versione edulcorata delle sue possibilità, a me lui ne fornisce una granitica e dura che mi colpisce in pieno viso. Metastasi al fegato. Un anno, non di più. Per un momento non respiro. Il professore, abituato, mi offre un bicchier d’acqua e col mento indica nella direzione di mia madre che non lo può sentire dalla stanza attigua dove si sta rivestendo. «È una donna bellissima» sussurra con un sorriso debole, complice, «ma non c’è nulla da fare». Sono confusa. Poso il bicchiere. Incrocio le braccia sul petto. Da lui, dispensatore di miracoli, mi aspetto di più. Rifiuto la questione. «Cosa possiamo fare?» balbetto a bassa voce, supplichevole. «Nulla ormai, solo accompagnarla» risponde l’essere divino crudele e castigatore. Sono ancora più confusa. Bevo un altro sorso d’acqua. Incrocio anche le gambe. Non ci credo. Non dico nulla. Lascio fare tutto a lui. Tanto poi mi ribello, lo so, qualcosa mi invento. Il tunnel nero inizia così. Un’ecografia, una telefonata, poche parole stampate su un foglio, un professore competente, tanti viaggi presso altri medici, esami infiniti, protocolli sperimentali falliti. Mia madre lotta, non si arrende, ma nel frattempo, da donna pratica, inizia a predisporre tutto per lasciare me e i miei familiari senza troppe beghe da sbrigare. Dopo. Ma noi questo “dopo” non possiamo ancora mentalmente permettercelo, al momento.
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