Storia vera di Filippo G. raccolta da Roberto Moliterni
L’ho vista ballare in terrazza, ne sono rimasto incantato. Sono un tipo timido, solitario, forse l’ultimo dei romantici. Infatti, scrivo anche poesie. Ed è stato grazie a una lirica, mimata goffamente, che ho attratto per la prima volta l’attenzione di quella fata
La vidi sulla terrazza del palazzo accanto. Stava danzando apparentemente senza musica: il braccio massiccio, memoria di origini contadine, si protendeva teso in avanti, mentre la gamba si allungava fino alla sua massima estensione, concentrando la tensione muscolare in un centro di equilibrio: la punta del piede. Indossava leggings neri che le scolpivano le gambe, e una maglietta bianca, larga e morbida, che accompagnava i movimenti lasciando dietro di sé una scia magica. La ragazza, che non doveva avere più di 25 anni, continuava a fare piroette e balzi al sole, senza accorgersi di quello che le accadeva attorno, concentrata sul proprio ritmo interiore. Aveva trovato una pace inviolabile nell’eterna guerra fra mente e corpo che, in quel momento, sembravano tutt’uno. Era come un miracolo ciò che stava accadendo davanti ai miei occhi perché il corpo di quella ragazza non alta e piuttosto massiccia, diverso da quello che ci si aspetterebbe da una ballerina, era dotato di una leggerezza sovrannaturale. Solo dopo un po’ avevo notato le cuffie senza fili. Erano nascoste da una massa di capelli ricci e lunghi, di colore castano chiaro, che la luce del tramonto rendeva biondi.
Quando il sole era sparito dietro le case, le torri e le cupole delle chiese del centro di Bologna aveva smesso di danzare. Si era avvicinata a un gradone, forse il tetto di un lucernario, aveva tolto le cuffie e preso degli occhiali di cui non mi ero accorto fino a quel momento. Li aveva indossati e aveva guardato nella mia direzione. Aveva un bel viso tondo, che quegli occhiali circolari – con a montatura dorata, scintillante al sole – rendevano ancora più familiare.
Eppure, era la prima volta che la vedevo. Mi recavo quasi tutti i pomeriggi in terrazza per prendere aria e trovare ispirazione per le poesie.
Avevo la fortuna di non dovermi preoccupare della sopravvivenza e di potermi dedicare alle mie passioni. La mia famiglia mi aveva lasciato un negozio di antiquariato in centro nel quale commerciavamo in opere d’arte del passato, un’attività che rendeva piuttosto bene. La ragazza, dopo essersi accorta di me e avermi guardato con sospetto, era sparita oltre la porta di ferro che conduceva alle scale del suo palazzo. Forse era perplessa per il fatto che, sebbene stessi come tutti sempre in casa, non avevo perso l’abitudine di vestirmi come se dovessi andare in negozio: camicia bianca con le maniche arrotolate e pantaloni neri con le pinces, tenuti stretti in vita da una cinta. Forse era rimasta sorpresa anche dal blocknotes e dalla penna. Dovevo esserle sembrato una spia. E invece ero solo un poeta.
La sera, durante la cena consumata in solitudine nella sala da pranzo del mio appartamento, mi tornava in mente l’immagine della ragazza che danzava sul terrazzo. Ripensavo a quel quadretto anche se non lo volevo.
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