Alla fine
di Barbara CerroneMio padre era un eroe. Io no. Si alzava ogni mattina molto presto per andare a fare cose che non gli piacevano in un posto che non gli piaceva dove vedeva cose che non gli piacevano. Poi tornava a casa. E anche questo a volte non gli piaceva. Voleva cenare presto perché poi andava a dormire e non ci teneva a vedere troppa tv, specie se c’era il solito film di guerra. Mio padre non voleva rivedere la guerra in un film, perché l’aveva vista dal vero. Certo un ragazzino di diciassette anni che si arruola in marina non pensa che scoppierà una guerra l’anno dopo. E invece scoppia. E il mare è il suo campo di battaglia. E vede che la guerra è un falò di sangue che fa un fumo di una puzza bestiale. Specialmente quel giorno, quando, dopo che la nave ha attraccato, il suo amico gli dice: “Scendiamo a terra”. E lui: “No, non ho voglia, vai tu”. E quello insiste: “Dai, andiamo tutti e due, ci divertiamo un po’”. Lui cede di malavoglia e una bomba proprio appena scesi a terra spappola la testa di quel disgraziato e pianta una scheggia in quella di mio padre. Un ricordo che ora marcisce con lui. E l’ospedale militare con la suora che lesina il mangiare ai soldati feriti e comunque ti mette sempre brodo nella ciotola. Come se un ragazzo di diciotto anni potesse accontentarsi del brodo. Comunque la guerra fa schifo. E puzza, questo è sicuro. Puzza di morto e di sangue. Ecco perché mio padre andava a letto quando si faceva quella finta in tv. Lui non parlava quasi mai della guerra. Non si ricordava il nome del disgraziato morto ai suoi piedi, ma era meglio perché i morti con un nome fanno più male. Allora andava a letto e dormiva quasi subito. Qualche volta urlava nel sonno, ma lui poi diceva che non si ricordava il perché. Non ricordava i sogni e neanche gli incubi. Urlava forte, però, e mamma correva sempre e io con lei perché tutte le volte pensavamo a qualche accidente. Invece erano sogni e lui dormiva, ma dormiva male. Forse nemmeno dormire gli piaceva. Gli era piaciuta poco anche la croce di guerra che gli avevano assegnato come gran riconoscimento, forse proprio per la scheggia (che però continuava a dormirgli nel cranio). Il giorno in cui doveva ritirarla mi ha voluta con sé, poi io ho dovuto prenderla al posto suo perché a lui non gliene fregava niente. Siccome c’erano di mezzo un morto e una scheggia nel cranio, la croce non gli sembrava di grande utilità. Aveva degli occhi molto verdi, mio padre. Io no. Cioè, sono un po’ verdi e un po’ marrone, tanto per non scontentare né lui né mamma. Che li aveva castani. Come i capelli, chiari solo qua e là, come se avesse fatto dei colpi di sole che neanche esistevano, forse, ai suoi tempi. Cioè, magari esistevano ma non erano ancora arrivati nella campagna innocente di quegli anni. E certo non erano arrivati a casa sua. Nessuno in famiglia si è preso gli occhi di mio padre, se li è tenuti solo lui e ora riposa con loro dentro la scatola di cemento. Ma se uno parla della vita di un altro che poi è suo padre forse deve dire che è stata bella, anche solo per educazione. Però io questo non lo so. Dico che se fosse stata bella me ne sarei accorta anch’io, ma non è detto. Comunque la sera prima della fine lui sembrava lontano. Era come assente. Aveva un’espressione mai vista sul viso. Un’espressione beata, come di uno che è lontano ed è contento di esserlo. Magari per la prima volta, dopo tanto tempo, aveva visto qualcosa o qualcuno che gli piaceva. Moltissimo.
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